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Surf’s not up

“I Beach Boys? Sono quelli di A ba-ba-ba ba-babberén, giusto?”

Sono anni e anni che mi ritrovo a sentirmi dire cose di questo genere, ed ogni volta mi affretto a spiegare con fervore da evangelizzatore che si, sono anche quelli, ma soprattutto un’altra cosa molto meno popolare -soprattutto qui in Italia- e infinitamente più preziosa, e cioè quelli che dal ’66 in poi hanno rivoluzionato il pop, ispirato direttamente i Beatles di Sgt. Pepper, creato quel capolavoro assoluto che è Pet Sounds eccetera. Loro, o meglio lui: Brian Wilson, genio del songwriting al pari di Burt Bacharach e Pul McCartney, uomo infelice dalla vita tribolata, miracolosamente sopravvissuto a se stesso, alle droghe, alla malattia mentale, alla incomprensione dei suoi compagni di viaggio musicale, capace di essere stato dapprima l’artefice di quelle canzoncine rock perfette, tutta energia adolescenziale mare sole macchine e ragazze, e poi il creatore di struggenti elegie pop sulla perdita, la mancanza, l’inadeguatezza (in musica come nell’immaginario che i testi proponevano).

the-beach-boysGiovedì scorso i Beach Boys hanno suonato a Roma, in quello che era il loro tour dei 50 anni di attività, una reunion avvenuta dopo anni di divisioni, malumori e ostilità. E senza Carl e Dennis Wilson, che non sono più su questa terra. I restanti hanno circa settant’anni (la numerosa e ottima backing band mediamente la metà o meno). Io sono andato, of course, a vederli, non senza un certo timore. Ed ecco cosa ho visto.

Prima del concerto, uno sguardo sul pubblico mi rivela persone molto variegate per età, con parecchi giovani e giovanissimi. Qualche orribile tenuta surf indossata da attempati fricchettoni, si, ma nei limiti del tollerabile. L’atmosfera è allegra e rilassata. Qualcuno canticchia, guarda un po’, Barbra Ann, e sembra sia venuto fondamentalmente per sentire quello.

Il concerto comincia puntualissimo. Parte la batteria energetica di Do it again ed il pubblico -me compreso- esulta. Entrano sul palco i musicisti. Cerco Brian, eccolo, arriva. Pallido, con espressione tetra e malaticcia, si sistema ad un pianoforte sulla sinistra del palco. E mentre gli altri danno il via a un concerto tosto, divertente, energetico, lui resterà lì per due ore e un quarto a far poco o punto. Senza sorridere mai, o quasi. Una testimonianza vivente (fossi cattivo, come Flaiano direi piuttosto morente) del suo dramma -della sua vita-. Lui, l’artefice di tutto, delle stupide e felici canzoni surf, e dei capolavori pop d’avanguardia, lui che litigò con lo stolido Mike Love (cui non piaceva Pet Sounds, che disprezzava Smile, e che avrebbe cantato in eterno solo le canzoncine per rimorchiare adolescenti), lui senza il quale non ci sarebbe stato il 90% della migliore musica in circolazione fino ad oggi, stava lì, attonito, immobile, a far finta di suonare ed ad ascoltare il concerto dei suoi compagni, i Beach Boys, quelli di Surfin’ UsaI get around, di Fun fun fun Help me Rhonda. Quelli che il pubblico si aspettava  e (ri)conosceva.

brian wilsonIo ascoltavo e ballavo esaltato, come tutti, felice di sentirmi rock’n'roll, giovane(?) e stupido. E ogni tanto mi chiedevo: ma qualche canzone posteriore al ’65, no?…

E a un certo punto è arrivato questo momento più Brian, diciamo. God only knows, Wouldn’it be nice, Heroes and vilains…

Ma non funzionavano, non c’entravano con questo concerto. L’andamento delle canzoni, la loro natura composita e sofisticata sommata alla cattiva acustica spezzavano l’effetto panzer, e sembravano creare un calo di tensione. Brian poi quando canta (lo ha fatto, ogni tanto) mi fa venire attacchi d’ansia simili a quelli che mi provocava Modugno al suo ritorno sulle scene dopo l’ictus (ce la farà a mantenere l’intonazione? La voce si sta per rompere? Dio, no, ti prego). Poi, la parentesi si è chiusa. E  siamo arrivati canzone dopo canzone, riff dopo riff, coretto dopo coretto, al gran finale al fulmicotone, bis, pubblico in visibilio. I musicisti -tranne Brian- tutti felici e quasi sorpresi da tanto calore.

E’ tutta qui la storia di questo (bel) concerto, che ha messo in scena, per chi voleva e poteva vederlo, la duplicità (nel caso di Brian, tecnicamente e patologicamente la schizofrenia). Un concerto divertente, trascinante, animato da un gruppo di energici vegliardi simpatici e in forma (solo Mike Love, devo dirlo, resta piuttosto antipatico. Il suo look, l’ho finalmente capito, è identico a quello di un camorrista dei Quartieri Spagnoli, con quella camicia da fuori e il cappellino da baseball. Il suo gestire allusivo e legnoso, pure). Ho ballato, e con me il pubblico, quasi tutto il tempo. E mi sono ricordato del bellissimo concerto che vidi all’Olympia di Parigi nel 2004: Brian Wilson presents SMiLE. Un altro concerto, in tutti i sensi possibili.

Se qualcuno mi chiederà cosa ho visto giovedì scorso, gli rispondero senz’altro: I Beach Boys. Quelli di A ba-ba-ba ba-babberén, hai presente?

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Blue Gene Tyranny - Out of the blueQuesto post è dedicato agli happy few che condividono con me alcuni piccoli culti musicali.
Evento numero uno, di fondamentale importanza per le poche decine di persone al mondo che come me hanno adorato un piccolo prelibato disco degli anni ’80, rarissimo anche allora su vinile e poi diventato pressoché introvabile: il meraviglioso Out of the blue di Blue Gene Tyranny.
Ebbene, è stato finalmente ripubblicato su CD, e lo trovate su Amazon, cliccando sull’immagine a fianco (l’intero disco è scaricabile in Mp3 per la bellezza di $ 3,56, un paio d’euro!).
Per coloro che non lo conoscono, c’è poco da dire: fidatevi, è un disco imperdibile, delizioso, inclassificabile. Su Amazon trovate anche dei piccoli sample delle canzoni. Compratelo e non vi pentirete.

Evento numero due, passato misteriosamente sotto silenzio, almeno in Italia ed almeno per quanto mi riguarda. Lo sapevate che Burt Bacharach e Brian Wilson hanno scritto una canzone insieme, cantata da quest’ultimo e pubblicata su un disco strano che raccoglie classici riarrangiati e brani indediti di alcuni giganti della canzone americana (Bacharach e Wilson, appunto, Carole King, Kenny Loggins, Paul Williams ed altri)? 
New music from an old friendBè, sia detto senza nessuna intenzione blasfema, ma per me è quasi come sapere che il Padre e lo Spirito Santo hanno scritto insieme una preghiera (il Figlio sarebbe Paul McCartney, nella mia personale trinità pop).  Cliccando sull’immagine a fianco, si va su Amazon, per chi fosse interessato. A questo link info estese sull’album, con samples audio e video. Qui invece si può sentire in streaming tutto il disco, compresa la sopracitata canzone, sulla quale non mi pronuncio ancora. Va accostata con reverenza e giudicata con calma. E sarà comunque, temo, per quanto bellissima, al di sotto di quanto è lecito aspettarsi, per evidenti motivazioni teologiche.

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When I’m 65

Brian WilsonAvevo cominciato con Bacharach, che peraltro è nato il mio stesso giorno.
Proseguo quindi con la serie dei festeggiamenti dei membri adorati del mio personalissimo Pantheon.

Oggi, compie 65 anni Brian Wilson. Ed è lucido, attivo ed in buona salute. Tutte cose che anni fa nessuno avrebbe creduto probabili. Ci ha regalato alcune tra le cose più belle di sempre nell’ambito della musica pop. Un genio, una creatura sempre in bilico tra la felicità (la sua, discontinua, e la nostra) e il dolore. Una persona che non posso fare a meno di amare. Auguri. 

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Guess I’m dumb

Sono convinto che postare video di Youtube sia cosa da evitare, o da praticare con estrema parsimonia. Ma quando ho visto questo reperto rarissimo, ogni remora ha ceduto. Questa è una delle più belle canzoni mai scritte da Brian Wilson. Un capolavoro praticamente introvabile, uscito solo su singolo nel 1965, per l’interpretazione di Glen Campbell. Follemente in anticipo sui tempi (la prima discendente diretta è Tomorrow never knows dei Beatles, uscita l’anno dopo su Revolver. E ho detto tutto) è un’eterodossa delizia pop…. Basta. Ascoltare per credere. E notare le strepitose signorine sui cubi antelitteram.

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Pinguini sulla spiaggia

Chi ci ricorda / 3

Surf's up

Tra le musiche che più ho ascoltato ed amato negli anni passati, c’era quella della Penguin Cafe Orchestra. Violini, ukulele, pianoforti, glockenspiel, elastici, segnali telefonici e percussioni africane, Bach, la musica etnica e il music-hall: note inclassificabili, strambe, dolcissime, sentimentali ed ironiche che hanno reso migliori molte delle mie giornate. Poi il loro leader, Simon Jeffes, è morto a cinquant’anni ed io, senza rendermene conto, ho quasi smesso di ascoltare quei dischi. Più recentemente, quando la mia passione per Brian Wilson ed i Beach Boys è diventata ossessiva al punto da farmi comprare quasi tutti i loro dischi, la sorpresa: Metto su per la prima volta il disco “Carl and the passions – So tough”, del 1972. Parte la prima canzone. Già quell’accordo ribattuto all’inizio mi suona familiare, poi…. a un certo punto c’è un break e inizia un riff ancora più familiare. Praticamente identico ad uno dei temi di “Penguin Cafe Single”, il primo pezzo del primo disco della PCO, uscito nel 1976 per la Obscure di Brian Eno. Quello che io conoscevo come un brano di assoluta originalità, al di fuori di ogni schema conosciuto, in realtà aveva un precursore preciso, inequivocabile. E come al solito, a monte, c’era il vecchio Brian. E’ davvero strano. In apparenza questi due pezzi sono il sole e la luna: di qua un rock’n’roll  energetico e luminoso, di là una musichetta acustica retrò, classicheggiante, languida, quasi da caffè-concerto, anni luce lontana da tutto ciò che suona vagamente rock. Eppure sono l’una la derivazione dell’altra. Non può essere un caso: i legami sono troppo evidenti. E’ stato emozionante, per me. Un po’ come se ti rendessi conto che due amici, due persone a cui hai voluto molto bene in periodi diversi della vita, si conoscevano tra loro prima di incontrare te.

Beach Boys-Penguin Cafe Orchestra.mp3 (737 Kb)

  1. The Beach Boys: You need a mess of help to stand alone, da Carl and the passions – So tough (1972)
  2. Penguin Cafe Orchestra: Penguin Cafe single, da Music from the Penguin Cafe (1976)

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Giorno dopo giorno, mi spezzo in due e mi scimunisco

Chi ci ricorda / 1

Negli anni ’80 uno dei dischi fondamentali di noi ggiovani (all’epoca) è stato Night and Day di Joe Jackson. Canzoni pop pressochè perfette, con una robusta iniezione di Salsa, peraltro in grande anticipo sulle (terribili) mode latine che sarebbero venute dopo. Per intenderci, era il disco di Steppin’ out (per chi se lo ricorda). Ma anche gli altri pezzi erano letteralmente uno più bello dell’altro.

Uno di quei pezzi, ascoltati mille volte e rimasti felicemente sovraimpressi nelle sinapsi si chiamava Breaking us in two.

Capita che l’altro giorno, ascoltando una radio internet che si chiama “British invasion” (tanto per confermare la mia tendenza retrò), passa una canzone molto simile nelle battute iniziali. Più che simile: quasi uguale. Erano i Badfinger, gruppo di cui conoscevo solo il nome, prodotto dalla Apple Records nei primi anni ’70. Quel pezzo, intitolato “Day after day” è del 1971 (!) La mia ignoranza su costoro è diminuita, ma di molto poco (leggo qui, che l’album che contiene quel pezzo fu prodotto da George Harrison e Todd Rundgren… uhm, da approfondire). Altrettanto immutata resta la mia considerazione di Joe Jackson. Però….
Ripensandoci, però, sempre tra le sinapsi affaticate, è alla fine affiorato un terzo pezzo, una canzone -come dicono gl’intenditori- “seminale”. Un po’ meno somigliante in superfice, ma consustanziale e precorritrice. E’ del 1965. La scrisse per Glen Campbell indovinate chi? Lui, l’unico. Brian Wilson. Guess I’m dumb. Un capolavoro.

Ascoltate:
Jackson-Badfinger-Wilson.mp3 (774 Kb)

  1. Joe Jackson: Breaking us in two, da Night and Day (1982)
  2. Badfinger: Day after day, da Straight up (1971)
  3. Brian Wilson feat. Glen Campbell: Guess I’m dumb (singolo, 1965)

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