14 gennaio 2008 by Marco
Bisogna trovare un titolo per il post, anche quando si è a corto di fantasia. Dunque, per questo frettoloso riassunto degli ultimi quattro film visti, accontentatevi di questa ipotetica storia (non priva di qualche interesse, se qualcuno l’avesse inventata).
Ma non tergiversiamo. Leoni per agnelli, l’ultimo visto, ha messo a dura prova la mia mandibola, che ha rischiato di slogarsi a furia di sbadigli. Di questo film di Robert Redford era facile immaginarsi tutto prima ancora di vederlo: grande invettiva liberal, a base quasi esclusivamente di conversazioni campo/controcampo, contro le guerre di Bush, in nome di un’America che piace a tutti, intelligente, morale, appassionata ed elegantemente friendly come il professore universitario interpretato dal regista, contrapposta a quella ipocrita e guerrafondaia dell’ambiguo senatore repubblicano Tom Cruise. Il dualismo emerge prepotente anche nell’impostazione iconografica: da un lato un settantenne giovanile e piacente, in camicia sportiva dentro una luminosa stanza di campus piena di libri, dall’altra un giovane politico rampante in completo blu, cravatta e spilla a stelle e strisce dentro uno studio tutto mogano, bandiere, foto in cornice e tradizione. In mezzo, la storia di due ragazzi -un negro ed un ispanico-, volontari in Afghanistan, vittime delle nuove strategie belliche del senatore ed ex studenti del professore. Il tutto molto teatrale, parlato, didascalico, prevedibile. Poteva andar peggio: sono rimasto sveglio fino alla fine.
Caramel rientra nella categoria dei film per i quali si spende volentieri la parola carino. Anche quella grazioso. Bello è forse troppo dire. E’ il lungometraggio d’esordio di una giovane e splendida libanese -che ne è anche la protagonista-, Nadine Labaki, il cui unico difetto è una certa somiglianza con Elisabetta Gregoraci, difetto che ha molestato solo marginalmente la visione del film, almodovarianamente ambientato in un salone di bellezza di Beirut, nel quale s’intrecciano le storie sentimentali di un gruppo di donne, tra ironia e malinconia. Quel che mi ha colpito, oltre al fascino di quasi tutte le protagoniste, è stata l’ambientazione: una città ed una umanità mediorientale forse non del tutto aliena dagli stereotipi dello spettatore occidentale, ma senz’altro con stereotipi meno scontati. Interreligiosa (cristiani e musulmani così simili nella loro naivetè mediterranea), laica, tradizionale ed allo stesso tempo affascinata dal glamour dell’occidente (la cosmesi, il trucco, l’acconciatura). La sensazione di estrema familiarità “sentimentale” che ho provato ha le sue coordinate nello spazio fisico -per una volta corro il rischio del luogo comune- del mediterraneo, e nel tempo: quella frazione di Beirut che si vede ricorda molto l’Italia di qualche decennio fa, e la sua umanità quella di certe commedie in bianco e nero di un tempo cui siamo molto affezionati. Per un figlio di profumiere napoletano nato negli anni ’60 quale sono, certi ambienti risultano inevitabilmente proustiani.
Talvolta ci si augura che il proprio intuito non sia affidabile, e che il (pre)giudizio che ci porta a profetizzare che un certo film sarà con ogni probabilità terribile magari è infondato, e ci aspetta invece una bella sorpresa. Non è stato, purtroppo, il caso di L’amore ai tempi del colera, che sono stato costretto a vedere per le insistenze del mio caro amico M. E’ proprio come temevo che fosse. Tremendo. Fasullo, leccato, mal recitato, pretenzioso e ridicolo, e pieno di svarioni da antologia (tra gli altro, un termometro tascabile di tipo moderno che sbuca in una visita medica del 1860, scritture in inglese in un centroamerica iperoleografico che sembra preso di peso dal vecchio spot del Nescafè, malriuscite acrobazie di trucco e di cambio di interprete dalle logiche del tutto misteriose). Se avevate dei dubbi sulla bravura di Giovanna Mezzogiorno, questo film li fugherà in un istante. Se non ne avevate su quella di Javier Bardem, ve li farà venire. Tutto sommato, era meglio lo spot del Nescafé.
Infine, anche se è roba un po’ datata, avevo visto tempo fa L’abbuffata di Mimmo Calopresti. E quasi esclusivamente per ragioni personali, essendo il film ambientato in Calabria, a Diamante, che è il paese in cui vado in vacanza da quando avevo nove anni. E, con tutta la generosità possibile, senza queste ragioni, non ha molto senso andarlo a vedere. Non che sia sgradevole, intendiamoci, ma nella sua pretesa levità, ironia, allegria venata di malinconia, si legge solo una intenzione, una diligente buona volontà priva di qualsiasi reale energia. Un compitino crepuscolare. Meglio andarci di persona, a Diamante, soprattutto fuori stagione.
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5 dicembre 2007 by Marco
Il titolare è contrito, traboccante rimorsi, ha containers di cenere pronta ad essere aspersa sulla sua ormai purtroppo vastissima fronte. Ma è andata così.
Forse mai era stato così latitante. Ma ha avuto qualche scusante. Una delle quali per il momento è riservata. Ma verrà resa palese inorno al 15 dicembre (incrociate le dita se vi va).
Ora -dopo la logora retorica della terza persona, riprendo la prima- ho tutte le intenzioni di ridare un po’ di continuità a questo blog, che tra un paio di mesi peraltro festeggerà il secondo anno di vita. Non che non ci siano, o non ci siano stati in questo periodo pretesti, idee, riflessioni, fatti e cose più o meno interessanti di cui parlare. Ma le energie e il tempo non erano evidentemente abbastanza. Dunque qui si riprende, e si riprende con una serie di pillole cinematografiche, due o tre parole sui film che ho visto nell’ ultimo periodo, giusto per non avere la sensazione della colpevole omissione.
Due giorni a Parigi, esordio alla regia di Julie Delpy è un film non indispensabile, logorroico ed imperfetto, ma non spiacevole da vedere, con momenti di divertimento (benchè si abbia spesso la sensazione di un Woody Allen minore, francese e davvero segaiolo).
La giusta distanza di Mazzacurati è altrettanto non necessario per le vite di ciascuno, non particolarmente nuovo negli ambienti e nei temi, ma ci si spendono volentieri aggettivi consunti come carino e garbato, utili per coloro per i quali tali aggettivi bastano per spendere i soldi di un biglietto. Per alcuni altri, o anche per gli stessi, potrebbe essere sufficiente la folgorante bellezza della protagonista.
Die Hard -ebbene sì-, visto in compiaciuta ed un po’ snob compagnia virile in pieno trend antiintellettuale -e quindi più che mai intellettuale, purtroppo- mantiene fin troppo ciò che promette. Si esce dalla sala sghignazzanti, commentando la quantità abbondantissima di cliché divertenti perché spudorati e quella ridottissima delle espressioni del protagonista e segretamente vogliosi di silenzi antonioniani, di camere fisse, dei monacali cineforum della nostra adolescenza.
Il film di Coppola, Un’altra giovinezza, meriterebbe una trattazione ben più estesa di queste quattro righe. Va visto da tutti coloro che amano Coppola ed il cinema in genere, e, massì, la letteratura, e Borges in particolare. Non perchè sia chissà quale capolavoro. Imperfetto, spesso implausibile, per qualcuno addirittura irritante, conserva però una magia ed una capacità di evocazione visiva che solo Coppola avrebbe potuto realizzare così (è probabile che chiunque altro, a partire dallo stesso materiale, avrebbe prodotto un’indigeribile schifezza). Mi è sembrato di scorgerci, oltre a Borges a camionate, anche citazioni, meno esplicite, di Kubrick. Coppola, Borges, Kubrick. Nella mia giovinezza, ma forse anche adesso, questi tre nomi rappresentavano una intoccabile trinità laica. Non potevo non vederlo, e, vistolo, non parlarne.
Che dire di Ratatouille? Se leggete i post precedenti relativi ai film d’animazione d’eccellenza, che amo alla follia, capirete già dove vado a parare. Splendido, intelligente, godibile, persino abbondante (in termini di lunghezza, cosa rara e faticosa, per chi lo realizza). Morale solo apparentemente banale: bisogna accettare ciò che si è. Ovvero, se sei topo, non puoi cambiarti in colombella. Ma se essendo topo sei igienista e buongustaio, e proustiano alchimista di sapori e sensazioni, devi accettare anche questo e lottare per la tua anomalia.
Across the universe, last (e se non è least, quasi), è il terzo, ma trionfatore sugli altri, della categoria degli innecessari. Innecessario fino a sfiorare l’inutilità. Quasi molesto per un Beatle fan come me. Se si glissa sulla storia scema e banale, sulla forzata ambientazione storico-sociologica-giovanilistica altrettanto convenzionale ed inoffensiva e ci si sofferma sulle canzoni -dignitosamente arrangiate ed interpretate- e su alcune idee visive non male, si può vedere. A patto, una volta ritornati a casa, di rivedersi immediatamente Yellow Submarine per ricordarsi cosa fosse davvero la creatività e la visionarietà innocente ed intelligente dei Beatles e del loro tempo. Roba rara al giorno d’oggi, signora mia.
PS: dopo aver pubblicato il post, mi sono reso conto di avere freudianamente rimosso (non a caso) un film visto recentemente: Tideland di Terry Gilliam. L’aggettivo delirante in questo caso si applica nella sua pienezza. E’ un vero delirio “d’autore”, una pippa pirotecnica, spesso sgradevole (mai però come Paura e disgusto a Las Vegas), talora con belle immagini. Ma si esce dal cinema scuotendo la testa all’unisono. Questo Gilliam qua, che era stato in qualche modo il maestro di Tim Burton, ora ne sembra il surrogato andato a male. Ma molto. Quasi tossico (parola pertinente al contenuto del film, peraltro).
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9 ottobre 2007 by Marco
Che dire di questo onesto film interpretato e prodotto (assieme tra gli altri al solito Soderbergh, a Sidney Pollack -che ci recita pure- e ad Anthony Minghella) da George Clooney? Che vale la pena di andarlo a vedere se non ci si aspetta un capolavoro e se non si ha la puzza sotto al naso rispetto ai prodotti “di genere”. Ché di articolo di genere si tratta. Ben fatto, con qualche tratto originale, totalmente interno al filone classico del thriller “civile”, piu o meno “legal”, in cui il protagonista nel corso della storia compie un tragitto dalla assenza di scrupoli morali nel fare il proprio lavoro (“risolutore di problemi” per un grande studio legale dai clienti potenti e criptocriminali) verso la presa di coscienza e la nemesi, attraverso una storia personale travagliata, rapporti familiari complessi ed una presa di contatto diretta con la realtà omicida del rispettabile cliente, disposto a qualsiasi nefandezza pur di non perdere la causa intentatagli dalle vittime di un pesticida venefico. Non è il caso di aggiungere altro per non entrare nello spoiler bello e buono.
Anche se si ha l’impressione (dovuta forse all’invecchiamento dello spettatore alias lo scrivente) che comunque non si raggiunge mai il livello dei classici del genere e che non resterà memorabile, questo film è girato bene e meglio interpretato, da tutti gli attori (c’è tra gli altri una Tilda Swinton perfetta ed inquietante nel ruolo della responsabile legale della multinazionale cattiva). Clooney sopperisce come al solito con il carisma alla non sublime interpretazione. E qui, aggiungo una piccola annotazione personale. Se, quand’era più giovane, la star del passato di riferimento per Clooney (per somiglianza e tipo di espressività) sembrava essere Clark Gable, qui, in particolare nella scena iniziale nell’auto (che ritorna nel finale), il primo piano lo mostra molto simile ad un Cary Grant imbolsito e allucinato. Ed anche la scena stessa ha un vago sentore di Intrigo Internazionale. Credo che, tra i film medi che gira e produce Clooney e i classici cui si ispirano più o meno esplicitamente, ci sia la stessa relazione qualitativa che c’è tra Clooney stesso e gli attori che quei classici interpretavano. Senza nulla togliere, beninteso. Però di quei bei film di una volta s’è perso lo stampo. E dove sta più oggi uno James Stewart, signora mia?
Il conto:
Spesi: 7 euro
Valore effettivo: 5,50 euro
Bilancio: -1,50
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3 ottobre 2007 by Marco
L’inerzia settembrina, come è capitato altre volte, mi ha portato ad accumulare un arretrato di film visti e di cui val la pena di parlare. Lo faccio collettivamente ora. I film sono Shrek terzo, La ragazza del lago, I Simpson ed Espiazione.
Due film d’animazione americani e due “drammatici” europei di origine letteraria. Polarità piuttosto differenziate, direi. Se proprio devo dire quale delle due, globalmente, ha prevalso in questo confonto di inizio stagione, direi senz’altro la prima, ai punti. Ma io, si sa, sono uno snob all’incontrario, e tendo a simpatizzare aprioristicamente per ciò che, a-ideologicamente non ha altre ambizioni dichiarate che quella di fare un prodotto artigianale divertente, ben fatto e possibilmente intelligente, piuttosto che per ciò che invece è in odore o puzza di “cultura alta” e spesso produce insostenibili dilatazioni scrotali. Ma basta con le dichiarazioni di principio e veniamo al dettaglio.
Ho visto il terzo episodio della saga dell’orco verde con le orecchie a trombetta insieme ad un amica, abituale dei film d’essai e completamente vergine rispetto al “genere” (si è lasciata convincere per la stima che mi porta, cosa che ha dimolto gratificato il mio ego particolarmente bisognoso di conforti, in questi tristi tempi). E’ uscita dalla sala piacevolmente sorpresa, mentre la guardavo di sottecchi con sorniona soddisfazione. C’è ancora chi non ha idea di quanto i film di animazione contemporanei, o almeno quelli dei leader Pixar-Disney e Dreamworks-Spielberg rappresentino un’eccellenza cinematografica assoluta, della medesima dignità dei film “normali”, e spesso assai migliori, in termini di freschezza di idee, di sceneggiatura, di equilibrio tra intelligenza e spettacolarità. Shrek terzo, come i due precedenti, non fa eccezione, e garantisce un’ora e mezza all’insegna di trovate irresistibili, di satireggiamenti di stereotipi, citazioni e parodie di ogni tipo, con un sottilissimo equilibrio tra il politicamente quasi-scorretto ed una “morale” ad uso dei giovani virgulti che è certo corretta, ma senza virgolette e senza moralismi: un incentivo a sviluppare ironia ed intelligenza. In questo episodio, orco e orchessa rinunciano al trono per potersi godere la quiete flatulenta della loro casa nella palude, con la novità di una prole di orchetti neonati produttori delle più variopinte e maleodoranti secrezioni e deiezioni. Tutto questo non prima Read more »
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20 agosto 2007 by Marco
Mi fa piacere segnalare i commenti che Antonio Pennacchi, l’autore de Il Fasciocomunista , da cui è stato tratto il film Mio fratello è figlio unico, ha lasciato al mio post di qualche mese fa.
A breve, per completare il discorso, un post sul libro.
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1 agosto 2007 by Marco
Bergman e Antonioni sono morti a poche ore di distanza l’uno dall’altro. Il povero Michel Serrault, anch’egli dipartito in questi giorni, è stato un piccolo vaso di coccio tra due colossali anfore di bronzo, in quanto ad attenzione dei media.
A rischio di accodarmi ai necrologi di circostanza, vorrei spendere qui due parole per l’occasione. Di Bergman confesserò di poter dire davvero poco. Ognuno ha le sue lacune. Io ad esempio, non ho (ancora) letto Proust. E non ho praticamente mai visto un film di Bergman. Ma ho intenzione di colmare la lacuna, con tempo e pazienza. E mi fido degli esperti e degli amici. Come questo.
Ma su Antonioni voglio, devo dire qualcosa. Ognuno, credo, ha la sua piccola lista di film (e di libri, di canzoni, di dischi) che gli hanno cambiato la vita. Quelle esperienze che si fanno in adolescenza e che segnano definitivamente il tuo modo di guardare il mondo, di sognarlo, di esprimerlo. Per me, uno di quei film, visto quasi immediatamente dopo 2001 (che è il primo della lista), è senz’altro Blow Up. Ricordo perfettamente quella scassatissima e microscopica sala (“Cinema Italnapoli”), specializzata in rock movies, recuperi di terza visione e “cinema d’essai” dalla quale uscii stupefatto e stravolto, alla fine della partita di tennis senza palla. Analogamente al film di Kubrick, questa esperienza obliqua, onirica, misteriosa, piena di silenzi, di suoni e di immagini memorabili, totalmente immersa nel periodo ed allo stesso tempo astratta, atemporale, mi aveva aperto una porta della testa. Anni dopo, avrei scoperto che la storia era ispirata ad un racconto di Cortázar (quello che ha regalato il nome a questo blog, uno scrittore che amo incondizionatamente). E tutto mi sembrava tornare, in una corrispondenza sincronistica. A differenza di Kubrick, Antonioni non ha sempre sfornato film folgoranti come quello, e i suoi limiti, oggi, sono facili da individuare. Ma film come Professione Reporter e probabilmente altri (che neppure ho visto, e che oggi ho più desiderio di vedere), restano per me delle piccole zone di luce, diamanti muti e risplendenti che servono ad indicarti la strada quando fa buio, quando non sai dove andare. Il bello è che le strade che ti indicano non sai dove ti portano, sono sghembe, tortuose, innecessarie, e ti sembra di essere più confuso di prima. Ma emozionato e vivo.
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