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Flaiano e la libertà

Ricopio qui, per la pazienza di coloro che vorranno leggerselo tutto (è piuttosto lungo) l’articolo di Ennio Flaiano che ho letto durante la manifestazione di cui parlavo qui. Ci vuole un po’ di pazienza, ma ne vale la pena.

Ennio FlaianoSignor Direttore, collaborando al Suo giornale con queste note di diario mi sono fatto una piccola e riprovevole fama di uomo forse intelligente ma arido. La verità è il contrario: sono certamente un cretino, ma umido. Debbo infatti ammettere che credo ancora nelle idee che mi sono state inculcate da ragazzo, sui banchi della scuola, e non saprei non dico tradirle, ma nemmeno immaginare altre che le sostituissero: segno quindi che sono inadatto ai tempi, i quali richiedono versatilità e immaginazione.  Io credo, per esempio, nella Libertà e di questo vorrei parlarle. Uno dei momenti più felici della mia disordinata giovinezza fu quando lessi questa semplice frase, che mi spiegava tutto il mio amore: “La Storia è storia della lotta per la libertà”. Quest’amore per la parola Libertà non sopportava aggettivi né associazioni: io non volevo una libertà sorvegliata, difesa, personale, intellettuale; né gradivo che le si accoppiassero concetti, altrettanto nobili, come Giustizia e Democrazia, parendomi che la libertà li contenesse tutti, anzi li proteggesse. Quest’amore per la libertà è l’unico errore giovanile che io non rifiuto e che condiziona tutti i miei errori di oggi. Ma poiché questi errori mi aiutano a vivere, mi rendono anzi la vita sopportabile, io li difendo. Ora che le ho fatto il quadro abbastanza desolato povero della mia filosofia, siamo maturi per giudicarla. Purtroppo, dovremo prendere le cose un po’ alla larga Read more »

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Liberi e belli

Lacca Libera e BellaPrologo.

Anni fa, certamente prima dell’11 settembre 2001, quando i talebani imperversavano in Afghanistan, e si moltiplicavano gli appelli umanitari, di solidarietà soprattutto alle donne umiliate, torturate, uccise, proprio in quel periodo collaboravo con un istituto “culturale”, qui a Napoli. Ogni lunedi ci si riuniva per definire i programmi, gli eventi da organizzare eccetera. Uno di questi lunedi, una ragazza, laureata in sociologia, mi racconta il contenuto della conferenza che avrebbe dovuto tenere lì, dopo un paio di giorni. In sintesi, affermava che, al di là delle superficiali apparenze,  la condizione delle donne afghane era pressoché identica a quella delle donne occidentali. Entrambe vittime, sebbene in forma differente, del potere maschile, dell’oppressione sociale.
Naturalmente
trasecolai, e le chiesi se non si fosse spinta un po’ troppo in là con il paradosso, con la provocazione. Mi rispose sorridendo, con l’aria compiaciuta di chi l’ha fatta grossa ma è sicura di passarla liscia, che no, non c’era nessun paradosso, nessuna provocazione. Lei davvero pensava quello. Mi guardai intorno aspettandomi stupori analoghi al mio. Invece, in quel gruppo di benestanti signore di buona famiglia e di migliori principii progressisti, di giovani e meno giovani volontari pieni di ardore, cultura e idealità, si mormoravano cose tipo “vabbè, magari è un po’ esagerato, ma in fondo… la società dei consumi, ‘sti americani… pure qua stiamo inguaiati, che mondo, che schifo… va sempre peggio…”

Statua della Libertà

Fine del prologo.

Qualche giorno fa ho partecipato, come esponente della comunità degli scriventi, ad una manifestazione organizzata da alcune case editrici contro il ddl Alfano sulle intercettazioni, dedicata alla Libertà d’espressione. Si trattava di Read more »

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Un PSDI per il XXI secolo, o: aridatece Tanassi

Mario TanassiLo ricordate, il PSDI?
Nei tardi anni ’70, era un partito che si caratterizzava nel comune sentire, e nel satireggiare dei commentatori e dei comici, per alcune caratteristiche particolari. Erano corrotti e clientelisti non più degli altri partiti di governo ma erano, o sembravano, particolarmente fessi, e particolarmente magnoni. I suoi leaders erano spesso esilaranti macchiette. Ed erano quelli che più spesso, le rare volte in cui accadeva, molti anni prima di mani pulite, cadevano vittime sacrificali delle inchieste giudiziarie. Capri espiatori, non senza colpa, certo, ma che sovente pagavano per tutti, come nel caso Lockheed.
Ridicoli, inetti e talvolta arroganti lo erano. Nicolazzi, Pietro Longo, la Bono Parrino. Facchiano. Chi se li ricorda non penso possa reprimere un sorriso misto ad un brivido di turbamento al loro pensiero.
Però avevano una storia nobilissima alle spalle. E proprio per questo erano emblematici della degenerazione della politica in Italia. Nati nel ’47 con Saragat in una circostanza tra le più drammatiche della repubblica, in cui si erano scissi dai socialisti frontisti, per sostenere le ragioni del socialismo riformista e liberale contrapposto a quello allineato con Stalin e le dittature dell’est, si sono dapprima nutriti dei dollari americani, cosa che già in qualche misura induceva a rilassamenti di tensione etica. Poi, coll’approdo del PSI alle stesse sponde riformiste di cui loro erano stati pionieri, avevano perso ogni ragion d’essere. Tentarono anche un’unificazione, fallita per insuccesso elettorale (vi ricorda qualcosa di recente, per caso, tipo la Rosa nel Pugno? I socialisti, pare, tendono a mollare le ottime motivazioni ideali sui progetti di ampio respiro quando il corto respiro rischia di toglier loro qualche assessore….). Da quel momento, diventarono l’archetipo del partitino magnone, interessato solo alla propria sopravvivenza autoreferenziale, alle poltrone, alle lottizzazioni ed ai voti degli amici.
Ebbene, il caso di Mastella e dell’ UDEUR di questi giorni, mi sta riportando nostalgicamente alla mente quelle fronti inutilmente spaziose (come ebbe a definire Fortebraccio uno dei segretari socialdemocratici). Per analogie e differenze. Per analogie, perchè mi pare evidente che se -toh, che sorpresa!- Clemente e signora e consuocero e annessi fanno pressioni più o meno illecite per piazzare amici e parenti nei posti di comando di asl e strutture d’interesse pubblico di ogni tipo, non sono certo una scandalosa eccezione, tra i politici ed i gruppi di interesse organizzati nei partiti. Ma essendo il ras di Ceppaloni il più sfrontato e manifesto tra i magnoni d’oggidì, rischia di pagare per tutti. Proprio come Tanassi e Pietro Longo. E Craxi, anni dopo, sebbene con alle spalle un percorso diverso.
Però, ci sono anche delle differenze tra i seguaci del campanile e quelli del sole nascente. Il PSDI nasce per una necessità storica, con ottime ragioni ideali e con un leader che è stato un padre della patria, poi si degrada per strada quando quelle ragioni vengono meno. L’UDEUR nasce da un inestirpabile ceppo democristiano clientelista meridionale. E cresce e prospera a tutt’oggi, coerentemente, per le stesse ragioni per cui è nato. Occupare poltrone. Ricattare, piazzare amici, dare posti di lavoro ai paesani ed agli elettori, far prosperare il bacino elettorale.
Da questo punto di vista, erano meglio quegli altri. 
Per concludere: non mi pare né bello né intelligente rallegrarsi troppo di arresti e dimissioni. E’ parziale, a voler essere ottimistici prematuro. Se resterà solo lui a pagare per tutti, sarà un rimedio peggiore del male. Avremo sfogato il nostro malumore con la soddisfazione che almeno qualcuno avrà pagato -il più fesso o il meno machiavellico-. Io mi sentirei più soddisfatto non dico (non direi mai) a vedere in galera anche tutti gli altri, ma certo a casa, e se non tutti, almeno qualcun altro. Forse. E qualcuno al loro posto che cambi le leggi come quella sulle ASL che prevedono nomine politiche -e non professionali. Mi basterebbe. E sarebbe una soddisfazione meno facilmente biliosa.

PS: è la seconda volta in questo blog che mi ritrovo ad avere comprensione per Clemente Mastella. Secondo voi c’è da preoccuparsi? 

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Accentuazioni

Giorni di Nobel, questi. Sono una quarantina d’anni che dico Nòbel, con l’accento sulla o. E da quasi altrettanti ho un automatico moto di sdegnato sopracciglio ogni volta che sento qualcuno dire Premio Nobèl. Mi ha sempre fatto l’effetto di certe antiche zie che volevano fare le sofisticate e pronunciavano i nomi di famosi attori hollywoodiani francesizzandoli (Anfrì Bogàrt, Robèr Misciùm, Caterìn Ebùrn e via dicendo). C’era una conoscente di Flaiano che parlava di Tolstoi chiamandolo Tolstuà.
Eppure la mia tracotanza linguistica ha oggi subito uno smacco. Dopo aver sentito l’ennesimo giornalista -del tg2, figurarsi…- che diceva  “è stato assegnato il Nobèl per la pace ad Al Gore”, mi sono deciso a fare un ricerchetta su Google, non avendo un dizionario a portata di mano. Ahimè, pare che abbia passato una vita ad iAchille Campanilenarcare inutilmente il sopracciglio. Pare che si dica proprio Premio Nobèl. Per consolarmi, e per fare penitenza (l’ho trascritto a mano, non avendo lo scanner) ho ripescato un pezzo del 1965 di Achille Campanile sull’argomento accenti e televisione. Trovo che sia, scusate l’iperbole, assolutamente meraviglioso. Ed assolutamente esilarante (ogni volta che lo rileggo, rido da solo). E’ lunghetto, e non ho avuto cuore di tagliarlo. Ma vedrete che vale la pena di leggerlo.

LE OPERE E I FIERI ACCENTI

Una delle prime gigantesche opere della TV è quella della bonifica integrale del linguaggio, di cui il benemerito sodalizio si accolla volontariamente l’immane pondo fin dal suo primo apparire.
Nel riquadro di tale meritorio compito, di cui darò piena contezza nelle mie pagine olezzanti di lucerna, come quelle di Demostene, rientra lo

SPOSTAMENTO DEGLI ACCENTI

operato su larga scala. Vecchi accenti che da anni e talora da secoli riposavano indisturbati sulle posizioni occupate, in un neghittoso sonno e in un’immobilità da cui si sarebbe detto che niuno mai sarebbesi azzardato a toglierli, vengono audacemente rimossi e spostati a viva forza su altre sillabe. Chi viene fatto avanzare, chi indietreggiare. Chi si ferma è perduto.

L’ESERCITO ATTACCANTE

Per tale opera la TV si serve precipuamente d’una truppa d’assalto, composta di guastatori scelti, detti leggitori, Read more »

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Breach – l’infiltrato

Breach - Chris CooperQualche giorno fa, volevo andare a vedere Zodiac. Arrivato al cinema, mi sono reso conto che lo spettacolo indicato sul giornale non c’era. Ho ripiegato quindi su questo. E, avendo visto poco dopo anche il film di Fincher (di cui parlerò a breve), devo dire che tutto sommato, questo si è rivelato leggermente migliore, al contrario delle aspettative. Ma in entrambi i casi si tratta di film che destano perplessità.
Come Zodiac, racconta una storia vera. E come Zodiac (per chi si è informato), toglie in parte il gusto della sorpresa per l’esito finale, che si conosce in anticipo. Qui addirittura il film comincia con il filmato (vero) del procuratore Ashcroft che annuncia la cattura di Robert Hanssen, funzionario dell’FBI, altissimo responsabile dei servizi di spionaggio, che per vent’anni aveva passato informazioni al nemico, i Sovietici prima ed i Russi poi. Tutto il film è quindi una ricostruzione delle delicatissime indagini per incastrare quest’uomo, nel mirino dei colleghi da anni ma talmente abile nelle sue mosse da non lasciare alcuna “smoking gun” che potesse consentirne la condanna. Ed anche, secondo un filone narrativo classico, dei rapporti psicologici che si vengono a creare tra lui ed il giovane agente che gli viene assegnato come assistente con l’incarico di stanarlo e trovare le prove del tradimento, e col quale stabilisce anche un complesso legame non privo di fascinazione. Hanssen, interpretato da Chris Cooper, il generale criptoomosessuale ed assassino di American Beauty è una personalità complessa e disturbata. Cattolico integralista fino alla paranoia, membro dell’Opus Dei, aspro, arrogante e frustrato, ma anche segretamente dedito a voyeurismi sessuali e spia dei Comunisti, è un vero enigma. Ed il limite del film è proprio il fatto che quest’enigma non viene illuminato. Seguiamo il protagonista nei suoi movimenti reali e psicologici ed avvertiamo anche un suo tormento autentico, nell’immane contraddizione che incarna. Ma non riusciamo a decifrarlo, ed aspettiamo alla fine un minimo di luce. Il film finisce, circolarmente, con la sua cattura e ci si aspetta proprio questo: che ci venga rivelato qualcosa, di e da Hanssen. Ma nulla sapremo di quello che ha detto, delle sue motivazioni, delle suo rivelarsi (liberarsi?) davanti alla Giustizia, se non un breve scambio di battute con i colleghi che lo arrestano, che sembra preludere allo svelamento e che invece chiude la faccenda lì.
Questo film, che per quasi tutto il tempo sembra puntare soprattutto sulla chiave relazionale/psicologica, si chiude invece come se fosse un semplice thriller in cui l’unico problema è arrestare il cattivo. E lascia piuttosto perplessi per questo. Certo, c’è l’altro aspetto, il tormento del giovane agente, il suo scontrarsi con la realtà divorante di un mestiere che rende quasi impossibile una vita affettiva “normale” e relazioni personali che escludano finzioni ed omissioni, ma non sembra questo un filone particolarmente originale nei film hollywoodiani a base di poliziotti e spie. Così come il classicissimo discorso morale, tipicamente Americano e Protestante, sull’etica della responsabilità cui far riferimento nei momenti difficili (“Fa’ il tuo dovere: sali su quella barca e rema”).

E qui veniamo all’aspetto più interessante e preoccupante. Con l’aria che tira oggi in Italia, questo film qui,  se qualcuno se ne accorge, rischia di finire nel mirino dei neoclericali di tutte le risme che affollano rumorosamente tutti gli spazi disponibili. Hanssen è un Cattolico ipocrita, bigotto, cattivo e sessualmente pervertito (e perdipiù, osserviamo di sfuggita, ha un’inquietante somiglianza, nella faccia rugosa e floscia e nello sguardo stretto e acquoso, con Carlo Giovanardi). La morale del film, come dicevamo, è squisitamente protestante (benché anche il coprotagonista sia cattolico). E’ quanto basta per un articolo fiammeggiante sull’Avvenire o sul Foglio, se ci va bene. Se ci va male, per un’omelia, una dichiarazione dal pulpito, una reprimenda vescovile. Se ci va malissimo, per un’interrogazione parlamentare di Luca Volonté. Iddio ci assista.

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Le vite degli altri

Le vite degli altri - Ulrich MüheSono andato a vedere finalmente questo film dopo un’ininterrotta serie di input (personali e pubblici) che lo segnalavano come uno dei migliori della stagione. Di solito, con queste premesse, temo la delusione. Ma non c’è stata. Questo è davvero un gran bel film, e se non l’avete ancora visto, andateci.
La prima sensazione che mi ha dato è stata quella di una discendenza diretta, ed in alcuni momenti quasi esplicita nella citazione, dal capolavoro degli anni ’70 di Francis Ford Coppola: La Conversazione. Per me, quello è stato uno dei momenti “formativi” della mia carriera di spettatore, e lo ricordo sempre con grande emozione. Questo film di Florian Henckel gli rende omaggio senza esserne una copia minore, e laddove Gene Hackman, in clima di Watergate e di intrighi spionistici intercettava pezzi di vite altrui per puro lucro, con professionalità capitalistica, divenendo vittima egli stesso del sistema di cui era un asettico utensile, qui il protagonista Ulrich Mühe forma la sua competenza nel sistema concentrazionario della DDR, e del suo orwelliano servizio d’informazione, la famigerata Stasi, “Spada e scudo del socialismo”, come viene detto dagli stessi occhiuti funzionari. Ed anche lui come l’altro personaggio, laconico e solitario, apparentemente privo di La Conversazione - Gene Hackmanpassione, inciamperà nel proprio percorso segnato (per entrambi l’intoppo nasce dall’”osservazione” di una coppia di amanti, e per entrambi la musica rappresenterà un momento simbolico di questo inciampo, di questa possibile alternativa esistenziale). Il tutto raccontato con asciuttezza e tensione, in due ore e mezza intense a dispetto del clima molto “europeo” e gaio quanto può esserlo Berlino Est prima della caduta del muro. Volendo essere molto ma molto puntigliosi, ogni tanto emerge qualche piccola ingenuità narrativa, qualche didascalismo di troppo, qualche eccesso di melò in una narrazione per altri versi molto sobria. Ma sono davvero peccati veniali.
Concludo con un paio di note personali. Più del solito, l’ossessione delle somiglianze ha colpito ancora. Il funzionario GW mi ha ricordato parecchio il mio amico Francesco Costa, lo scrittore de La volpe a tre zampe. Un altro attore sembrava Erri De Luca, un altro ancora il regista Capuano. Ma soprattutto, il coprotagonista, lo scrittore di regime spiato, è la (bella) copia di F. di cui al post precedente. Sarà perchè non lo vedevo da tempo, e l’avevo incontrato il giorno prima…. Ma trattandosi (sempre nel post precedente) di misteri tra l’esoterico e le coincidenze Junghiane, la cosa più sorprendente e sincronica che riguarda questo film, Berlino, la Musica e me, ve la racconterò in un post a parte.

Il conto:
Spesi: 5,00 euro
Valore effettivo: 7,50 euro
Bilancio: +2,00 euro

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