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Ocean’s thirteen

Posso, per favore, posso per una volta esimermi dal dovere di parlare di tutti i film che ho visto?

Anche perchè, su questo, non mi viene proprio niente. Un paio d’ore piacevoli, belle facce, belle immagini e strizzate d’occhio all’immaginario lounge-martini-exploitation e chi più ne ha più ne metta. Tre secondi dopo, te lo sei dimenticato. Per cui:

Il conto:
Spesi: 7,50 euro
Valore effettivo: quello di un long drink di media qualità
Bilancio: dipende da dove prendi il long drink, e con chi.

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Essenza

Questo post potrebbe inaugurare una rubrica il cui titolo suonerebbe così: idee totalmente improponibili che prima o poi qualcuno si metterà a realizzare sul serio e noi resteremo di stucco.

Merda d’artista - Piero ManzoniDunque. Andiamo per ordine e arriviamoci gradualmente. Oggetto: una rivoluzionaria proposta nell’ambito dell’arte e del commercio.

Punto primo: da tempo immemorabile, il lavoro dell’artista si regge in maniera più o meno decisiva su di un rapporto di potere scambievole, tra l’artista medesimo, detentore del privilegio creativo, e il potere istituzionalmente costituito. L’artista fornisce al potente il frutto del proprio genio, compiacendolo ed “immortalandolo” nella propria opera, come soggetto vero e proprio o come artefice economico.  Il potente fornisce all’artista pane e gloria. Se nel passato questo rapporto era più evidente e diretto, oggi non è meno attuale. Al re o mecenate si sostituisce il mercato dell’arte, incarnato talora da oscuri investors a nome collettivo, ma più spesso dalle persone fisiche dei collezionisti miliardari che si compiacciono di avere nel tinello cotanti simboli di status, quando non il proprio policromo faccione serializzato da Warhol in persona. I cinque minuti di celebrità che si propagano in una potenziale eternità.

Punto secondo: da un centinaio d’anni, le opere d’arte sono tecnicamente riproducibili. Vale a dire che da relativamente poco tempo rispetto alla storia dell’ingegno umano, conosciamo i capolavori della pittura e della scultura di ogni tempo soprattutto perchè riprodotti. Sono molte di più le opere che conosciamo per averle viste in foto o in stampe “artistiche” appese alle pareti delle case altrui di quelle con le quali abbiamo avuto un incontro personale, in un museo o in una galleria. E se il policromo faccione del tycoon o del divo hollywoodiano immortalato da Warhol l’abbiamo comprato al negozio di stampe sotto casa piuttosto che ad un asta di Sotheby’s, non cambia molto. Purché s’intoni alla nuance del del divano. Ed ora, tra l’altro, morto Warhol, c’è chi, anche su internet, vi fa il ritratto nel suo stile per una cifra ragionevole. Voi gli mandate la foto e loro ve lo spediscono a stretto giro di posta.

Punto terzo: nel 1961 il geniale Piero Manzoni (di cui peraltro in questi giorni a Napoli è allestita al museo MADRE -provate a farne un anagramma, nomen omen- una retrospettiva) realizzò la memorabile serie della Merda d’Artista. Scatolette numerate e firmate contententi trenta grammi di escrementi dell’autore e messi in vendita all’equivalente del prezzo corrente dell’oro. Il colpo di genio, il non del tutto imprevedibile sbocco paradossale fu che, nonostante l’evidente intento demistificatorio ed ironico dell’operazione, la misteriosa follia che circonfonde ieraticamente l’ “arte” e coloro che se la possono comprare, ha fatto sì che davvero quella merda oggi valga un capitale, e crei tra l’altro insospettate ed imbarazzanti problematiche di conservazione e restauro (alcune scatolette mal conservate pare stiano rompendosi, vanno restaurate, hai visto mai che esca fuori e si disperda anche una minima frazione di quel contenuto così denso, concettualmente parlando?)

Conclusione: oggi si può ipotizzare, sulla base dei punti precedenti, un rivoluzionario servizio personalizzato che soddisfi il bisogno di ciascuno di lasciare una traccia di sè nella storia dell’arte, attraverso una testimonianza artistica ispirata al genio di Manzoni. In sintesi: voi ci fornite la vostra merda, noi per una cifra ragionevole ve la inscatoliamo, la certifichiamo come autentica e ve la restituiamo in un packaging identico a quello del ’61. La vostra deiezione diventa così un manufatto artistico concettualmente a metà strada tra la riproduzione e l’originale. L’idea è riprodotta, ma ha la sua unicità nella materia prima. La produzione su scala industriale ne consente un costo accessibile (ma se siete ricchi e volete fare i mecenati nel solco delle tradizioni, possiamo aumentare il dosaggio: confezione grande, grandissima o magnum, costo maggiore, privilegio esclusivo). L’unicità dell’ “autore”, per così dire, garantisce a lui soddisfazione, gratificazione, e un piccolo posto nella storia dell’arte. Morto lui, tra cent’anni, gli sopravviveranno trenta grammi di merda certificata e il suo spirito sopravviverà, per un sublime paradosso, nella più corporale ed effimera sostanza che ci sia.

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When I’m 65

Brian WilsonAvevo cominciato con Bacharach, che peraltro è nato il mio stesso giorno.
Proseguo quindi con la serie dei festeggiamenti dei membri adorati del mio personalissimo Pantheon.

Oggi, compie 65 anni Brian Wilson. Ed è lucido, attivo ed in buona salute. Tutte cose che anni fa nessuno avrebbe creduto probabili. Ci ha regalato alcune tra le cose più belle di sempre nell’ambito della musica pop. Un genio, una creatura sempre in bilico tra la felicità (la sua, discontinua, e la nostra) e il dolore. Una persona che non posso fare a meno di amare. Auguri. 

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Il dovere dell’ovvietà

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band

Esistono eccezioni -pochissime- alla diffidenza che istintivamente nutro per gli eventi, i personaggi, gli oggetti che hanno un apprezzamento eccessivamente ecumenico, condiviso da chiunque e senza eccezioni, luoghi comuni della cultura di massa. I Beatles sono l’eccezione numero uno. Di fronte a loro ed al loro capolavoro (di cui oggi ricorre il quarantennale) posso solo dichiarare il mio assoluto, incondizionato, appassionato amore. Che dura praticamente da quando sono nato. Nulla da aggiungere. Talvoltà l’ovvietà è indispensabile. E può salvarci la vita.

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Guess I’m dumb

Sono convinto che postare video di Youtube sia cosa da evitare, o da praticare con estrema parsimonia. Ma quando ho visto questo reperto rarissimo, ogni remora ha ceduto. Questa è una delle più belle canzoni mai scritte da Brian Wilson. Un capolavoro praticamente introvabile, uscito solo su singolo nel 1965, per l’interpretazione di Glen Campbell. Follemente in anticipo sui tempi (la prima discendente diretta è Tomorrow never knows dei Beatles, uscita l’anno dopo su Revolver. E ho detto tutto) è un’eterodossa delizia pop…. Basta. Ascoltare per credere. E notare le strepitose signorine sui cubi antelitteram.

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I rimorsi del non giovane blogger cinefilo

Ormai, sono diventati sette i film visti e qui finora taciuti. Il titolare è pieno di rimorsi, e data l’oggettiva impossibilità di parlarne separatamente, ne farà ora un riassuntino. Pillole. Meglio che niente. Perdonatelo.

Will Smith e suo figlioLa ricerca della felicità è un film onesto, senz’infamia, che potrebbe aver realizzato qualunque regista hollywoodiano medio. Ha il merito di suscitare qualche riflessione non banale: sull’America, sui suoi miti fondativi che si riversano nelle narrazioni che produce su se stessa, su chi queste narrazioni le costruisce non essendo americano (in ispecie, Muccino: che sia lui ad averlo diretto è elemento del tutto inavvertibile). E sulla morale ultima del mito dell’opportunità. Se ti fai il mazzo e lavori sodo, e sei bravo puoi arrivare dove vuoi, e risorgere dagli abissi. Ma se non sei bravo? E se il luogo dove vuoi arrivare è simbolizzato da una spider superlusso? Poi dice che uno si butta a sinistra.

Dreamgirls: l’inelegante metafora che mi sembra appropriata a questo film è di tipo erotico. Adocchi un splendida ragazza, che ti sembra il massimo del sex appeal. La inviti a casa a bere qualcosa. Tutto sembra promettere una notte pirotecnica. Dopo un quarto d’ora, ti è venuto il mal di testa. La tipa è prolissa, noiosa e un po’ stupida. DreamgirlsVorresti non averla mai conosciuta e il tuo testosterone si è dileguato. Allo stesso modo, l’inizio di questo musical ispirato all’epoca d’oro della Motown e della soul music è promettentissimo: musiche, coreografie, ambientazione sono magnifiche, e pensi che ti godrai un bello spettacolo. Poi il tracollo. Storia melensa, overdose di canzoni ai limiti del kitsch (non sul palco, ma nel vivo della storia, a sostituire dialoghi), e per i pedanti come me, quelle “suonate”  filologicamente imprecise. Vorresti tirare qualcosa in testa all’insopportabile “rivelazione”, la cantante/attrice Jennifer Hudson, che urla e strepita e irrita per tutto il tempo. Peccato. Grande Eddie Murphy in un personaggio che è un mix tra Little Richard, Wilson Pickett e Marvin Gaye.

L’amore non va in vacanzaL’amore non va in vacanza. Io, confesserò, ho un debole per queste commediole sentimentali. Anche quando sono visibilmente bonsai rispetto ai venerati classici (ho un altarino in camera da letto con Cary Grant, Audrey Hepburn e Billy Wilder ai quali indirizzo un commosso saluto ogni momento in cui mi sento triste). Anche se Jude Law sta ai suddetti come Mazzocchetti a Caruso (Enrico),  ha la faccia da pupazzetto e fa smorfie insopportabili in tutto il film per rendersi simpatico (senza riuscirci).  Anche se la coscienza critica mi scuote e mi fa notare quanto tutto qui sia troppo perfetto, troppo leccato, le case che sembrano prese da AD, gli attori bellissimi, i personaggi più tristi e sfigati come minimo scrivono colonne sonore per film hollywoodiani o sono giornalisti in prestigiosi rotocalchi londinesi. E a Natale cade la neve fuori alla lindissima casetta di campagna dove tutti alla fine si amano, ballano e un bel fuoco è acceso nel caminetto. Ma forse mi piacciono proprio per questo.  Esco dal cinema col cuore raddolcito, sorrido e sono contento. Poi fatico a ricordarmene dopo due giorni, ma non fa niente. Sarà l’ennesimo sintomo di decadenza senile.

La cena per farli conoscereLa cena per farli conoscere. A me Pupi Avati, in genere, piace. Perché fa solitamente dei film graziosi (nel senso etimologico: che hanno grazia) ed intelligenti. Perché sa scegliere e valorizzare e dirigere gli attori. Perché in Italia è un outsider nel senso migliore del termine (come per certi versi Rubini), bravo ma fuori dai giri grossi, paludati, dei vecchi tromboni come dei giovani rampanti. Ciò premesso, questo in ispecie mi pare un film carino. Non un capolavoro, ma che ha tutte le qualità sopracitate. E tre attrici che sposerei -una qualsiasi delle tre, Inès, Vanessa o Violante, non sottilizzo-, brave e deliziose. E che ha persino una Francesca Neri (che di solito non suscita i miei entusiasmi), sorprendentemente brava.

Una Notte al museoUna Notte al museo non era uno dei film che avrei messo in cima alla mia lista. Mi è stato consigliato da un’amica fidata (è divertentissimo!.. Vacci!!).  Per di più, come forse si sarà intuito, in questo periodo in cui le mie giornate sono ricolme di pesantezze, propendo per visioni leggere e divertenti. Ci sono andato. Non mi sono pentito. Se si riesce a vederlo con uno sguardo under 15, è quanto di meglio si possa desiderare per un sabato pomeriggio (popcorn e fanta obbligatori). Il bonus cinefilo è che tra gli attori ci sono Dick Van Dyke e Mickey Rooney. Al comparire di quest’ultimo nome sui titoli di testa, mormorio di stupore tra i miei amici (ma è ancora vivo?….). Al comparire sullo schermo di entrambi, brivido di commozione.

Letters from Iwo Jima non meriterebbe di essere inserito in questo centoncino frettoloso, insieme a compagni di post assolutamente non comparabili per dimensione. Ma tant’è. Non sarà il mio ridotto scriverne qui a ridurne la grandezza. E’ il capolavoro che mi attendevo. Letters from Iwo JimaMi sono perso Flags of our father per gli ineffabili misteri della distribuzione (almeno qui a Napoli, dove è sparito dalle sale dopo pochi giorni), quindi non posso fare comparazioni. Ma nulla cambierebbe, credo, nel giudizio. E’ un film che ha tutti gli attributi del classico, nel senso migliore del termine, senza l’inevitabile rischio di cristallizzazione che comporta, soprattutto avendo alle spalle un secolo di film di guerra, antimilitaristi, umanitari. E rientra senz’altro in questa categoria. Ma l’ha fatto Clint Eastwood. E l’ha sceneggiato Paul Haggis (quello di Million dollar baby, e il regista di Crash). Ed è un film che non lascia spazio a nulla che non sia essenza. Dalla fotografia livida, seppiata, piena di abbagli crepuscolari ed oscurità alle micro e macrostorie che racconta, tutte all’insegna, come al solito per Clint, della sconfitta e della dignità delle persone. Della follia della violenza e della sua inevitabilità. Sentimenti senza sentimentalismo. Epica senza retorica. Morale senza moralismo. La grandezza di Eastwood consiste anche in questi piccoli, fondamentali equilibri.

Scrivimi una canzoneScrivimi una canzone. Premessa: vedi sopra -L’amore non va in vacanza-. Discorso analogo, con un surplus di tipo generazionale. Chi ha la mia età non può non apprezzare tutto il cotè ironico-sentimentale sul pop degli anni ’80, di cui il personaggio interpretato da Hugh Grant è un reduce sfigato (una specie di Andrew Ridgeley, per chi si ricorda chi era). Il videoclip iniziale, filologicamente perfetto ed esilarante, vale da solo la visione del film. Chi come me coltiva il sentimentalismo pop, ama Hollywood, Londra, le canzonette Pop, la propria adolescenza perduta, è obbligato a vederlo, ed avrà sorrisi commossi per tutto il tempo. Anche se poi, esattamente come per l’altro film, avrà la precisa consapevolezza che non si tratta di un immortale classico. Probabilmente il suo ricordo non passerà la prova del bimestre. Ma sarà stata comunque una serata migliore di quella passata davanti a Porta a Porta.

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