5 dicembre 2007 by Marco
Il titolare è contrito, traboccante rimorsi, ha containers di cenere pronta ad essere aspersa sulla sua ormai purtroppo vastissima fronte. Ma è andata così.
Forse mai era stato così latitante. Ma ha avuto qualche scusante. Una delle quali per il momento è riservata. Ma verrà resa palese inorno al 15 dicembre (incrociate le dita se vi va).
Ora -dopo la logora retorica della terza persona, riprendo la prima- ho tutte le intenzioni di ridare un po’ di continuità a questo blog, che tra un paio di mesi peraltro festeggerà il secondo anno di vita. Non che non ci siano, o non ci siano stati in questo periodo pretesti, idee, riflessioni, fatti e cose più o meno interessanti di cui parlare. Ma le energie e il tempo non erano evidentemente abbastanza. Dunque qui si riprende, e si riprende con una serie di pillole cinematografiche, due o tre parole sui film che ho visto nell’ ultimo periodo, giusto per non avere la sensazione della colpevole omissione.
Due giorni a Parigi, esordio alla regia di Julie Delpy è un film non indispensabile, logorroico ed imperfetto, ma non spiacevole da vedere, con momenti di divertimento (benchè si abbia spesso la sensazione di un Woody Allen minore, francese e davvero segaiolo).
La giusta distanza di Mazzacurati è altrettanto non necessario per le vite di ciascuno, non particolarmente nuovo negli ambienti e nei temi, ma ci si spendono volentieri aggettivi consunti come carino e garbato, utili per coloro per i quali tali aggettivi bastano per spendere i soldi di un biglietto. Per alcuni altri, o anche per gli stessi, potrebbe essere sufficiente la folgorante bellezza della protagonista.
Die Hard -ebbene sì-, visto in compiaciuta ed un po’ snob compagnia virile in pieno trend antiintellettuale -e quindi più che mai intellettuale, purtroppo- mantiene fin troppo ciò che promette. Si esce dalla sala sghignazzanti, commentando la quantità abbondantissima di cliché divertenti perché spudorati e quella ridottissima delle espressioni del protagonista e segretamente vogliosi di silenzi antonioniani, di camere fisse, dei monacali cineforum della nostra adolescenza.
Il film di Coppola, Un’altra giovinezza, meriterebbe una trattazione ben più estesa di queste quattro righe. Va visto da tutti coloro che amano Coppola ed il cinema in genere, e, massì, la letteratura, e Borges in particolare. Non perchè sia chissà quale capolavoro. Imperfetto, spesso implausibile, per qualcuno addirittura irritante, conserva però una magia ed una capacità di evocazione visiva che solo Coppola avrebbe potuto realizzare così (è probabile che chiunque altro, a partire dallo stesso materiale, avrebbe prodotto un’indigeribile schifezza). Mi è sembrato di scorgerci, oltre a Borges a camionate, anche citazioni, meno esplicite, di Kubrick. Coppola, Borges, Kubrick. Nella mia giovinezza, ma forse anche adesso, questi tre nomi rappresentavano una intoccabile trinità laica. Non potevo non vederlo, e, vistolo, non parlarne.
Che dire di Ratatouille? Se leggete i post precedenti relativi ai film d’animazione d’eccellenza, che amo alla follia, capirete già dove vado a parare. Splendido, intelligente, godibile, persino abbondante (in termini di lunghezza, cosa rara e faticosa, per chi lo realizza). Morale solo apparentemente banale: bisogna accettare ciò che si è. Ovvero, se sei topo, non puoi cambiarti in colombella. Ma se essendo topo sei igienista e buongustaio, e proustiano alchimista di sapori e sensazioni, devi accettare anche questo e lottare per la tua anomalia.
Across the universe, last (e se non è least, quasi), è il terzo, ma trionfatore sugli altri, della categoria degli innecessari. Innecessario fino a sfiorare l’inutilità. Quasi molesto per un Beatle fan come me. Se si glissa sulla storia scema e banale, sulla forzata ambientazione storico-sociologica-giovanilistica altrettanto convenzionale ed inoffensiva e ci si sofferma sulle canzoni -dignitosamente arrangiate ed interpretate- e su alcune idee visive non male, si può vedere. A patto, una volta ritornati a casa, di rivedersi immediatamente Yellow Submarine per ricordarsi cosa fosse davvero la creatività e la visionarietà innocente ed intelligente dei Beatles e del loro tempo. Roba rara al giorno d’oggi, signora mia.
PS: dopo aver pubblicato il post, mi sono reso conto di avere freudianamente rimosso (non a caso) un film visto recentemente: Tideland di Terry Gilliam. L’aggettivo delirante in questo caso si applica nella sua pienezza. E’ un vero delirio “d’autore”, una pippa pirotecnica, spesso sgradevole (mai però come Paura e disgusto a Las Vegas), talora con belle immagini. Ma si esce dal cinema scuotendo la testa all’unisono. Questo Gilliam qua, che era stato in qualche modo il maestro di Tim Burton, ora ne sembra il surrogato andato a male. Ma molto. Quasi tossico (parola pertinente al contenuto del film, peraltro).
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23 luglio 2007 by Marco
In una serata che offriva molteplici sebbene non garantite alternative (tra le quali un concerto -sic- di Abel Ferrara e soprattutto uno di musica popolare sarda con tenores di bitti e suonatori di launeddas), mi sono fatto convincere da un’amica a dirottare su un cinema d’essai per vedere questo film.
Che dire? Erano anni che non vedevo roba simile. Pressappoco da quando, in fase adolescenzial-cinefilo-pippaiola mi sorbivo film insulsi e/o indigesti con l’animo penitenziale di un Fantozzi alla proiezione della Potemkin. E sebbene, come Fantozzi, mi concedessi talvolta la soddisfazione di poter dire alla fine che trattavasi di cagata pazzesca, il mio sensibile animo ne porta ancora i segni.
Avete presente quei film in cui dapprima si tace attoniti (magari è l’inizio, dopo sarà meglio…), poi si comincia a bisbigliare imbarazzati, poi si comincia a fare qualche battuta discreta, poi si passa alle risate incontenibili ed alle battute da osteria? Ecco.
Un’ininterrotta pippa del peggiore stampo (pseudo) letterario, (pseudo) teatral-colto, verboso, irrisolto, irritante, da far ululare di noia persino i braccioli delle poltrone. Tratto da una novella di Balzac, il cui scheletro presumo in questo momento stia ballando la macarena al Pere Lachaise, riassume il peggio del cinema europeo. Abbiamo inutilmente sperato in un intervento di restoring hope da parte dei fantastici quattro, di spider man o di pippo olimpionico. Ma erano evidentemente speranze vane, partorite dalla fantasia di cervelli alla disperazione. Unico elemento piacevole, la notevole rassomiglianza della faccia di Michel Piccoli nei panni di un anziano e sorridente nobiluomo, con quella di Enzo Cannavale, la cui presenza in questo film sarebbe stata una vera panacea.
Siamo usciti con un sentimento di nostalgia isolana, desiderosi di pane carasau, porceddu e filu e fierro. Invocavamo Maria Carta. Ma era troppo tardi, ahimé.
Il conto:
Spesi: 7,50 euro
Valore effettivo: 1,00 euro
Bilancio: -6,50
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10 maggio 2007 by Marco
Riflettevo, uscendo dalla sala, sul fatto che uno spettatore medio non francese ha forse un limite oggettivo nel giudicare questo film. Edith Piaf è infatti forse il più grande monumento musical-teatrale del novecento, ai limiti del mito, nella sua patria. Lì la sua immagine, la sua storia personale travagliatissima sono patrimonio comune o comunque elementi molto più conosciuti popolarmente che altrove. Non che in Italia o nel resto del mondo non sia conosciuta ed ammirata, ma senz’altro un francese sarà molto più esigente nel fare le pulci, se necessario, alla rischiosissima rappresentazione sullo schermo di un personaggio così popolare e “forte”. Tornato a casa, ho spulciato la minibiografia sulle note di copertina di un suo CD, ed ho riscontrato una corrispondenza puntualissima con la storia raccontata in questo film, i suoi episodi più o meno tragici, estremi, dall’infanzia nel bordello normanno, all’adolescenza sulle strade parigine tra papponi e criminali, al successo punteggiato da tragedie, dissipatezze e malattie, fino alla morte prematura nel 1963.
E mi sono confermato nel fatto che questo è un film corretto, nel miglior senso possibile. Rispettoso della storia, ben girato ed ambientato, ben recitato, filologicamente ineccepibile. Senza particolari arditezze, ma estremamente piacevole. Un buon prodotto di artigianato cinematografico. Naturalmente, come dicevo prima, qualche puntiglioso francese (i francesi sono spesso puntigliosi) avrà a che ridire sull’incarnazione che del passerotto fa Marion Cotillard.
Io personalmente, avendo visto poco o punto la vera Piaf su uno schermo, ho trovato la sua recitazione talvolta un po’ enfatica, quasi caricaturale nell’incarnarne le movenze goffe, originate in principio dall’eccentricità del personaggio e poi dalla malattia. Ma, come dicevo, non sono buon giudice sotto questo profilo. E se penso che forse talvolta c’è nella narrazione un eccesso di melò, rifletto poi sul fatto che, nulla essendo inventato della sfigatissima vita di questa donna, forse è vero proprio il contrario, e cioè che c’è voluta bravura per non far sprofondare il tutto nel kitsch, nell’enfasi tragica del sentimentalismo da quattro soldi.
In ogni caso, per chi non ha mai sentito la grandissima voce di Edith Piaf, questo è un film da vedere e da ascoltare, che ha dei momenti emozionanti, non foss’altro che per le canzoni che si ascoltano.
Il conto:
Spesi: 5,00 euro
Valore effettivo: 5,00 euro
Bilancio: = 0,00
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