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La vie en rose

Marion Cotillard nel ruolo di Edith PiafRiflettevo, uscendo dalla sala, sul fatto che uno spettatore medio non francese ha forse un limite oggettivo nel giudicare questo film. Edith Piaf è infatti forse il più grande monumento musical-teatrale del novecento, ai limiti del mito, nella sua patria. Lì la sua immagine, la sua storia personale travagliatissima sono patrimonio comune o comunque elementi molto più conosciuti popolarmente che altrove. Non che in Italia o nel resto del mondo non sia conosciuta ed ammirata, ma senz’altro un francese sarà molto più esigente nel fare le pulci, se necessario, alla rischiosissima rappresentazione sullo schermo di un personaggio così popolare e “forte”. Tornato a casa, ho spulciato la minibiografia sulle note di copertina di un suo CD, ed ho riscontrato una corrispondenza puntualissima con la storia raccontata in questo film, i suoi episodi più o meno tragici, estremi, dall’infanzia nel bordello normanno, all’adolescenza sulle strade parigine tra papponi e criminali, al successo punteggiato da tragedie,  dissipatezze e malattie, fino alla morte prematura nel 1963.
E mi sono confermato nel fatto che questo è un film corretto, nel miglior senso possibile. Rispettoso della storia, ben girato ed ambientato, ben recitato, filologicamente ineccepibile. Senza particolari arditezze, ma estremamente piacevole. Un buon prodotto di artigianato cinematografico. Naturalmente, come dicevo prima, qualche puntiglioso francese (i francesi sono spesso puntigliosi)  avrà a che ridire sull’incarnazione che del passerotto fa Marion Cotillard. Edith Piaf nel 1946Io personalmente, avendo visto poco o punto la vera Piaf su uno schermo, ho trovato la sua recitazione talvolta un po’ enfatica, quasi caricaturale nell’incarnarne le movenze goffe, originate in principio dall’eccentricità del personaggio e poi dalla malattia. Ma, come dicevo, non sono buon giudice sotto questo profilo. E se penso che forse talvolta c’è nella narrazione un eccesso di melò, rifletto poi sul fatto che, nulla essendo inventato della sfigatissima vita di questa donna, forse è vero proprio il contrario, e cioè che c’è voluta bravura per non far sprofondare il tutto nel kitsch, nell’enfasi tragica del sentimentalismo da quattro soldi.
In ogni caso, per chi non ha mai sentito la grandissima voce di Edith Piaf, questo è un film da vedere e da ascoltare, che ha dei momenti emozionanti, non foss’altro che per le canzoni che si ascoltano.

Il conto:
Spesi: 5,00 euro
Valore effettivo: 5,00 euro
Bilancio: = 0,00

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Il mandolino virtuoso

Ennio FlaianoRileggendo quel che ho scritto nel post precedente, ho l’esigenza di chiarire meglio quel che volevo dire. Scusate l’insistenza.
Non m’interessa l’invettiva antiberlusconiana in genere, purchessia. Penso che sia un esercizio abusato, facile e inutile. Anzi, spesso più vantaggioso per Berlusconi che per i suoi detrattori.
Quel che mi lascia interdetto, più che lui, quel che ha fatto, quel che ha detto, è tutto l’insieme. E’ il fatto che si consideri normale, in Italia, sulla stampa, e nei commenti politici, che uno -uno importante, non un pirla qualsiasi- che si vanta di essere l’unico vero liberale tra i politici, che parla ossessivamente di libertà ed, all’opposto, di comunismo come sistema oppressivo, totalitario, antiliberale ed antidemocratico, uno così vada a ribadire tutto questo in un convegno di neofascisti se non neonazisti, di cui si dice amico ed alleato. Su un palco dal quale giganteggia una sinistra fiamma e la parola MUSSOLINI a caratteri cubitali.
Proviamo per un attimo a fare un banale esercizio di fantasia.
Immaginiamo che, ad esempio, in Francia esista una signora, che so, nipote del Maresciallo Pétain. Jaqueline Pétain, per dire. Che guida il Front National. Anzi, che ha personalizzato il FN, trasformandolo elettoralmente in ”lista Pétain”. Immaginiamo Chirac che ci si vuol alleare. Che va da lei a tuonare contro la dittatura comunista, su un palco con la scritta Pétain da sotto.
Oppure che Greta Goebbels ospiti l’amico Kohl o l’alleata Merkel sotto uno striscione bruno col suo nome. Che Aznar vada al congresso dei neofalangisti guidati da Dolores, Inés, e Nuria Franco, tre ex attrici discendenti del Caudillo che, dopo essere state scartate da Almodóvar per un suo film, si sono buttate in politica.
Riuscite ad immaginarlo? Difficile, lo so. Ma se ci riuscite, immaginerete anche una enorme baraonda. Il mondo politico, giornalistico, culturale, l’opinione pubblica europea in subbuglio. Non sarebbe una cosa normale. In Italia lo è. Per l’Italia lo è. A quanto pare si sono abituati a considerarci una bizzarra anomalia anche all’estero. Simpatici, superficiali, sbruffoni italiani. Tanto tutto s’aggiusta, volemose bene. Dopotutto Alessandra è nipote pure della Loren. E Silvio è un simpaticone naif, piace proprio per quello. Non vale la pena di prendere nulla sul serio da queste parti. Anche se non mancano qui le intemerate moraliste dei rigorosi custodi dell’etica di stampo calvinista, principalmente su bandane e stallieri, meno sulla politica (e su colonne di giornali ricolmi di gossip e cronaca nera e tette) queste sono, appunto, moralistiche, ipocrite, tutt’altro che serie. Da queste parti esiste solo la commedia. Il dramma o la tragedia, o semplicemente il racconto senza oleografia, senza “colore”, non ha cittadinanza.
Eppure Mussolini  -Benito-, era Italiano. Sarà stato un personaggio ridicolo, ma lui e gli eventi che ha generato sono stati di una tragica serietà. Una dittatura ventennale, una guerra, l’alleanza e la complicità morale col peggio del ventesimo secolo. Una guerra civile, milioni di morti. Una repubblica nata, almeno sulla carta, in opposizione consapevole e memore a quella e quindi a tutte le dittature.
Tutte cose abbastanza serie che l’Italia è stata in grado di produrre. Eppure.
Lo so come questo post potrebbe andare a parare. Con l’inevitabile citazione di Flaiano. Ma ve la risparmio. Anche lui ha diritto ad essere lasciato in pace per qualche minuto nella tomba.

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Le parole e le cose

Bambini ad AuschwitzOggi, Silvio Berlusconi è intervenuto ad un convegno organizzato dal partito di Alessandra Mussolini.
Tra le altre cose, ha detto che c’è “il dovere di ricordare che cos’è e cosa è stato il comunismo, le atrocità che ha commesso…. Si è trattato dell’impresa più disumana e criminale della storia dell’uomo”.
Lo ha detto ospite di un partito nato allorchè la sua fondatrice si è allontanata da AN, per un irrimediabile dissenso identitario col suo presidente. Tale dissenso identitario consisteva nel fatto che Fini era stato in Israele, aveva indossato la kippah (“sembra proprio uno di loro“), e, parlando della Shoah, aveva definito il Fascismo “male assoluto”.
Che la Mussolini faccia la Mussolini è nell’ordine delle cose.
Che un uomo che millanta di essere campione di liberalismo e democrazia, tra il suo amico Putin e la sua amica (e probabile alleata) Alessandra, sia il leader del maggior partito italiano, abbia guidato una democrazia europea, e rischi di ritornare a governarla è davvero bizzarro, per usare un eufemismo.

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Una multiforme temperie di sentimenti

Johnny DorelliVogliamo parlare del Festival di Sanremo?

E sia. Parliamone.

Tanto, il vostro titolare deve riprendere un po’ la mano dopo la latitanza (e la paranza) di questi giorni. Quindi meglio soffermarsi su una cosuccia leggera su cui ognuno è legittimato a dire la sua corbelleria.
Quest’anno ho visto tutte le serate, ritualmente, con antichi sodali, sfidando l’insonnia ed altre malattie psicosomatiche. Pertanto, alla vigilia del finalone, posso ben esprimere qualche concetto a ruota libera. Anzi, farò di meglio. Poichè il Festival ha prodotto in me una serie di contrastanti stati d’animo, cercherò di riassumerveli, specificandone le cause. Ecco dunque

Alcuni motivi di depressione causatimi dal Festival di Sanremo:

  • Vedere Gigi D’Alessio cantare Con il nastro rosa di Battisti è stata una delle esperienze più deprimenti, imbarazzanti, irritanti che abbia mai avuto nella mia vita di ascoltatore/spettatore. E’ paragonabile solo a quella di vedere il suddetto D’Alessio essere superospite a Sanremo, e cantare per oltre un quarto d’ora. E a quella di constatare il fatto che il suddetto sia un idolo delle folle anche oltre il perimetro del quartiere Mercato-Pendino di Napoli. E, in fondo, a quella di constatare che esista Gigi D’Alessio. E’ una sensazione che condivido con la totalità dei miei amici napoletani. Mi domando spesso se il fatto di vivere a Napoli e non appartenere alla fascia socioculturale dei suoi fans non comporti un pregiudizio negativo ingiustificato. Chissà. Il discorso meriterebbe approfondimenti, ma è meglio lasciar perdere. Primo, perchè questo vuol’essere un post leggero. Secondo, perchè se lo faccio e si viene a sapere nel quartiere dove vivo, come minimo mi gambizzano. Concludo con una citazione dell’ottimo Ernesto Assante:

    Se esiste un dio della musica D’Alessio e Lara Fabian dopo questa esibizione si sono guadagnati l’inferno

  • La vittoria nella categoria dei giovani di Fabrizio Moro. E il premio della critica. E il tormentone giornalistico sull’ “impegno civile”, sul “coraggio”, sul “Sanremo di sinistra” e via dicendo. Ma siamo impazziti? Ma l’avete sentita quella canzone? Avete provato a leggere il testo? Avete visto il video sul maxischermo, coi faccioni di Lennon, Madre Teresa, Martin Luther King eccetera? La sagra dell’ovvietà buonistica. La parodia del Jovanotti più insopportabile. Il testo ricorda Elio quando sfotte Lorenzo ne “La visione della figa da vicino”. Solo che questo fa sul serio. E la musica. Una brutta copia dell’unica e costantemente riciclata canzone degli Zero Assoluto, che già un capolavoro non è.
    Eppure, tutti a dire che bravo che bello, che impegno, evviva Borsellino, abbasso i cattivi, le canzonette possono cambiare il mondo, bravo Baudo che hai portato a sanremo la società civile…. Basta. Meglio fermarsi qui. Che terra dei cachi, questa.

Alcuni motivi di allegria causatimi dal Festival di Sanremo:

  • Semplicemente, il fatto che le autentiche schifezze sono state pochissime (Al Bano, Mazzocchetti e poco più, e comunque ad un livello meno intollerabile di altre edizioni), e che ho ascoltato molte canzoni dignitose (MangoCristicchi, Velvet, Concato) alcune più che dignitose (Tosca, Nada, Silvestri) e almeno un paio decisamente belle, quelle di cui parlerò tra poco. E per i giovani, vale lo stesso discorso. Purtoppo quelli che secondo me erano i migliori sono stati eliminati subito (FSC e Pier Cortese, davvero molto bravi), e ha vinto quel che sapete. Ma in generale, ricordando certi obbrobri passati, c’è di che consolarsi.
  • Elisa. La più bella voce e tra le migliori autrici che abbiamo oggi in Italia. Nulla da aggiungere.
  • Le canzoni di Amalia Grè e Johnny Dorelli. Le più belle, le mie favorite, quelle che non vinceranno. La Grè, che non mi ha mai particolarmente entusiasmato per quel suo piglio ostentatamente “ricercato”, che sottende la puzza al naso e il complesso di superiorità del jazzista -che ne potete sapere voi poveri canzonettari- ha tirato fuori un piccolo capolavoro, dal sapore allo stesso tempo classico e ricercato. Mi ha ricordato un  po’ -paradossalmente, vista l’abissale differenza di timbro vocale- certe cose di Nina Simone: quel sapore malinconico e un po’ agro, oscuro e arioso allo stesso tempo…. Brava.
    Ma è Johnny quello che mi riscalda il cuore. Io non sono giudice imparziale. Alla mia età, e con le mie precoci frequentazioni televisive, Dorelli non è uno qualsiasi. E’ uno di famiglia. Arriva dopo anni di assenza uno che somiglia ad un vecchio orsacchiotto ritrovato in un cassetto, che pensavi di aver perso in chissà quale trasloco, e ritrovi tutto il valore delle parole classe, professionalità, stile, arte. Dorelli canta, Calabrese e Ferrio scrivono la canzone. Sembra di essere tornati indietro di trent’anni almeno, ma lo stupore è tutto di oggi. Canzone quasi perfetta, un piccolo gioiello senza tempo. Come per Arigliano, ci si rende conto ogni tanto che il sentimentalismo della memoria spesso ha una sua ragion d’essere.

Un motivo di grandissima allegria causatomi dal Festival di Sanremo:

  • Stefano Bollani che prima e dopo avere accompagnato (splendidamente) Dorelli nel duetto della terza serata ne ha fatto un’imitazione perfetta ed esilarante. Da sola meritava una standing ovation.

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L’arte del sogno

L’arte del sognoQuesto film non è perfetto. Non è equilibrato. Non ha una storia, è sbilenco, strano, irrisolto. Eppure è prezioso. Trabocca di cose rare, quasi uniche. Ha la grazia. L’innocenza. L’intelligenza. La purezza. Lo sguardo. La gioia. E’ davvero raro vedere queste cose tutte insieme, oggi. Gli unici prodotti artistici recenti di mia conoscenza che posso avvicinare emozionalmente a questo sono, in letteratura, Molto forte, incredibilmente vicino di Foer e, sullo schermo, parte delle cose migliori di Tim Burton, come La sposa cadavere.
Avevo una grossa aspettativa per questa nuova opera di Michel Gondry, dopo il folgorante Eternal sunshine of the spotless mind (ometterò il titolo italiano per decenza, chi non sa di cosa sto parlando s’informi). Sono uscito dal cinema confuso e un po’ felice. Ripeto: non c’è, onestamente, da gridare al capolavoro, ma di questa esperienza visiva qualcosa di importante ti resta in circolo, ti continua a dare dei lievi capogiri, qualcosa di simile al ricordo di un bacio. A un bel sogno, appunto.
Ed il sogno che ingovernabilmente trabocca nella realtà e viceversa è tutta o quasi la storia di questo film sbilenco. I sogni costruiti artigianalmente dal protagonista, ma con un serissimo rigore scientifico. La Science des rêves è il titolo originale: ed è la scienza di Archimede Pitagorico e Buster Keaton, di Munari e Calder, di Tati e Chagall. Dei film di animazione dell’est che guardavamo sulla RAI da piccoli. Di macchine ‘inutili’ e bellissime come opere d’arte. Anzi, oggetti d’artigianato, giocattoli. Questo è un film fatto di stoffa, carta, cartone, spago e fil di ferro: la materia dei sogni. C’è poco da aggiungere: Il ‘racconto’ è poca ed irrisolta cosa. Gli attori (Gael Garcia Bernal e Charlotte Gainsbourg) sono quasi perfetti, e lei ha un impossibile, tenerissimo fascino cui non si può resistere.
Potrei finire qui. Ma c’è una cosaL’arte del sogno importante che vale la pena aggiungere. All’inizio, parlavo di purezza. Devo spiegarmi meglio. Questo film maneggia materiali pericolosi depurandoli di qualsiasi insidia. E’ eccentrico ed originale senza l’autocompiacimento dell’artista, o le obliquità cerebrali che trapelano quasi inevitabilmente in questi casi. E’ visionario (e quanto!) ma senza nessuna acidità psichedelica, senza nessun retrogusto tossico o allucinato. E’ un’apologia dell’infanzia e dello sguardo infantile senza nessuna tentazione regressiva, di allontanamento dalla realtà, dal qui ed ora. I sogni sono un prolungamento, un complemento del reale, che ad essi scorre parallelo e da essi attinge energia. Certo, si potrebbe dire, il protagonista non è un esempio di persona concreta (è quasi un disadattato, nelle relazioni). Ma a me sembra che svolga un ruolo simbolico, catartico: ci (ri)indica la strada, una strada che possiamo percorrere con la nostra automobilina di cartone ondulato. Forare una gomma è un’eventualità imponderabile, andare più o meno lenti, cantando o stando zitti, ascoltando la radio o chiacchierando col compagno di viaggio, sono scelte individuali.

Il conto:
Spesi: 5,00 euro
Valore effettivo: 7,00 euro
Bilancio: +2,00

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C’è poco da ridere

Ieri sera, su la7, una lunga e interessante trasmissioni sugli anni del terrorismo e della violenza politica.
A un certo punto, un filmato con interviste a studenti universitari di oggi, sulla loro conoscenza di quegli avvenimenti. Tra gli altri non meno sconcertanti dialoghi, questo:

  • Intervistatore: Sai cos’è l’Italicus?
  • Studente: L’Italicus?… E’ quel treno dove viaggiavano i morti… della strage di Piazza Bologna.

Ho riso. Ma c’è davvero poco da ridere.

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