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La manutenzione digitale dei defunti, la ruota del karma, le onde hertziane e Raffaele Pisu.

John Fitzgerald KennedySe consideriamo il tipo e la quantità di cerimonie cui partecipiamo come un indicatore simbolico del periodo della vita che stiamo attraversando, allora non c’è dubbio. Io mi trovo nel momento in cui diminuiscono matrimoni e battesimi e aumentano, sempre un po’ di più, i funerali. Il vantaggio è che a questi ultimi ci si annoia  di meno, e di solito sono anche più brevi.

Però sarebbe preferibile che non ci fossero del tutto,  si vorrebbero  evitare,  certo più di quanto si desideri evitare i matrimoni. In breve: più passa il tempo e più ci cominciano a morire persone intorno, coetanee o quasi. E ci si sente, se si è un minimo inclini al pessimismo, ma non necessariamente, dentro un cerchio i cui confini si restringono impercettibilmente, ogni giorno un po’ di più. Uno stagno di anatre in cui un cacciatore stupido e crudele spara alla cieca, in cui galleggi con gli altri pennuti e cominci a un tratto a sentire gli schizzi d’acqua dei colpi andati a vuoto, vedi affondare inopinatamente uno del tuo gruppetto, poi un altro. Vanno a fondo dopo lo sparo, e per un po’ tutti smettono di starnazzare. Poi riprendono.

Tutto questo, certo, non ha niente di straordinario. Succede, è sempre successo, continuerà a succedere, con qualche minima variante. Però mi sembra che oggi (un oggi il cui inizio non è facile stabilire retrospettivamente) stia accadendo qualcosa che rende l’approccio alla morte (degli altri) un po’ diverso.

La prendo alla larga. Qualche anno fa morì improvvisamente un amico, poco più grande di me. Ricordo, oltre a tutte le cose inevitabilmente sgradevoli cui mi mise a contatto quest’evento, un momento particolare: quello in cui cancellai dalla rubrica del cellulare il suo numero.
Esitai a lungo, soffrii il peso simbolico di quel gesto.
Mi sembrava di stare cancellandolo non solo dalla memoria del telefono, ma anche dalla mia. Un oltraggio. Poi ripresi il controllo sulla mia immaginazione un po’ troppo speculativa, e lo feci. Mi è capitata dopo una bizzarra nemesi. Nei mesi successivi, pensando a lui, lo ricordavo bene. Vedevo la sua faccia, la associavo al nome, ricordavo le situazioni che avevamo vissuto insieme, ma non riuscivo a ricordarmi il suo cognome. Un cognome comune e semplice.

Nello stesso periodo ho cominciato a sentire qua e là, a proposito di cellulari e di morti, le malinconiche storie di persone che periodicamente telefonavano al numero del parente o del compagno scomparso per sentirne la voce in segreteria, come se fosse vivo, non ci sono, non sono raggiungibile, lasciate un messaggio, vi richiamerò al più presto. Così dicevano. Oppure, in una variante frequente, si limitavano a pronunciare goffamente il nome e il cognome, preceduti e seguiti dalla voce astratta della signorina della compagnia telefonica, un inquietante ma cortese angelo accompagnatore.
Non sono più raggiungibili. O forse si, volendo. Ma non subito, magari.

E veniamo ad oggi. Da quando Facebook è entrato nella mia, e in molte altre vite -più o meno tre anni-, è successo che due dei miei “amici” siano morti, entrambi prematuramente.
I loro account sono ancora attivi, la gente continua a taggarli e a scrivere sulle loro bacheche, che sono diventate delle tombe digitali. Ci si va a portare fiori, parole, immagini, poesie, canzoni. Capita anche di trovarci qualche parola di gente inavvertita, che li invita a sottoscrivere e far girare petizioni o a partecipare a giochi. Se ne hai troppi, di amici, è quello il rischio: non si accorgono neanche che sei morto. Amici distratti.

Dunque, se nessuno si prenderà la briga di seppellirli virtualmente con qualche click, disperdere i loro bit nel vento chiudendo quella bacheca funeraria -ma chi avrebbe il coraggio di farlo, se penso alla difficoltà di quel mio piccolo gesto sul cellulare concludo che sia un peso troppo grande per chiunque- resteranno lì, chissà per quanto. Per sempre, forse.

In memoria di un server, copiati –copie di sicurezza, ma di cosa possiamo mai essere sicuri- in altri server, diffusi attraverso reti fisiche e aree, questi morti resteranno in circolazione nel mondo -le loro parole, le loro immagini- forse più delle loro ossa. E soprattutto, si distribuiranno, si espanderanno.

Pare che le onde elettromagnetiche non si estinguano nello spazio se non a distanze che per le nostre menti equivalgono all’infinito.
Trasmissioni televisive e radiofoniche, conversazioni via radio, telefonate, flussi di dati, foto, video, pagine scritte: tutto permane e viaggia nell’universo. E rende le vite delle persone, i loro gesti più insignificanti, purché trasmessi in qualche modo, cose permanenti quanto incorporee. E karmicamente cicliche. Eterne.

Su un pianeta distante quarantanove anni luce da qui, Lee Harvey Oswald sta per uccidere –ora, in quest’istante, in diretta televisiva- il Presidente Kennedy. E lo farà per i secoli dei secoli, secondo un destino incancellabile. Gli spari gemelli del suo fucile e della pistola di Ruby si rincorreranno a far frastuono di morte e televisione in giro per l’universo, per sempre.
E per sempre sarà errante nell’etere la frase d’amore che hai pronunciato tre anni fa al telefono.  La promessa non mantenuta che hai fatto a tua madre. La spesa che hai ordinato al salumiere in quel pomeriggio piovoso, le foto che hai perso quando ti si è rotto l’hard disk.  Quelle chat piene di battute divertenti che non ricordi più, e ti dispiace. La mail con cui ti sei licenziato. Tutte le mail che hai mandato, tutte quelle che hai ricevuto. Allunga il tuo pene, allungalo in eterno. Enlarge your penis, Impress your wife. You won $ 500,000. Confidential proposal. Appello importante, fate girare. Fate girare. Sono povera ragazza russa perdona se scrivo male. Lo dice Beppe Grillo, attenzione, importante. Importante. Milioni di peni eiaculano su milioni di facce, tra le galassie. E nessuno li vede, forse. Qualche testa di infedele viene tagliata meticolosamente per l’eternità. Stai benissimo in quella foto, davvero. Ma dov’era?

E così, delle nostre infanzie, della noia di certi pomeriggi di domenica che ci sembravano, per fortuna, perduti per sempre, possiamo dire che invece ne resta un’ombra, un riverbero psichico che si propaga. Un pupazzo di gommapiuma con un dente solo mosso da un signore col mento sporgente, su uno schermo in bianco e nero. Boccaccia mia statti zitta. E la gente in teatro, dietro le telecamere, ride e applaude.
Quella sera in teatro c’era mio zio. La sua risata è stata registrata insieme a quella di mille altre persone, e come ha capito Palahniuk, gli sopravvive. Continua a ridere anche adesso che è morto, riutilizzato in altre trasmissioni, e il suo sghignazzo si moltiplica espandendosi nell’universo, assieme agli altri. Miliardi di miliardi di morti che ridono spostandosi velocissimi nel buio tra le stelle.

Siamo forse, se non immortali, meno impermanenti di quel che pensavamo.
Tutto questo, certo, non garantisce dall’oblio. Ma è una chance di eternità. Può essere di conforto. E di monito.

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Buona fine

31 dicembreIl titolo del presente post, per coloro che non avessero colto la sottile ironia, si riferisce ovviamente all’anno in corso. Lo preciso per evitare di passare per menagramo.
Non potevo finire il 2007, nonostante la perdurante inerzia che mi coglie, senza un post conclusivo. Mi ritrovo tra le mani un raccontino che ha qualche nesso con il capodanno, e qui lo trascrivo. Auguri. E buon principio.

Per un lungo periodo, intorno ai sei anni, mi sono ammalato periodicamente di tonsillite.
La prima volta mia madre, osservando le placche che avevo in gola, disse stupita: “Che strano!.. Tu non hai mai sofferto di tonsille…”
Pronunciò la stessa frase poco tempo dopo, quando mi ammalai di nuovo.
Così pure la terza volta.
Quando, dopo un paio d’anni e svariate decine di episodi di febbre con placche in gola, mia madre continuava a stupirsi del fatto che mi veniva la tonsillite pur non avendone mai sofferto, cominciai a rendermi conto che c’era qualcosa che non tornava. Quel ripetitivo stupore espresso in quella frase pronunciata ogni volta pressoché identica, con minime varianti, era il sintomo di qualche problema di rapporto con la realtà.
Col tempo ho capito che questa storia fotografa con precisione l’approccio di mia madre alla vita.
Lei, costretta da una paura esistenziale che non le da tregua, concepisce il mondo staticamente, come un quadro od una foto. Un fermo immagine in cui vengono cristallizzate in eterno le cose e le persone. Uno scenario rassicurante da cui è escluso ogni divenire, ogni possibilità di evoluzione, ogni incognita, potenzialmente foriera di apocalissi ingovernabili, inconcepibili. Meglio quindi abbandonare la dinamica per la statica e crearsi il proprio piccolo album di fotografie, e andarsele a guardare ogni tanto. Tanto quelle non si muovono, restano lì. Il pupo insaponato nella vasca non cresce, non si ammala, non va via di casa, non ti dà dispiaceri. La coppia di sposi sull’altare resta lì per sempre a guardarsi sorridente, mano nella mano col prete di fronte che li sta benedicendo. Il nonno e la nonna, nello studio del fotografo, in posa un po’ rigida, con la tendina ad onde sullo sfondo, tradiscono si un certo disagio, dovuto alla scarsa familiarità con quei posti dove bisogna stare fermi, fa caldo e ci sono tutte quelle diavolerie moderne, ma tutto sommato hanno una bella faccia e stanno certo meglio lì che dietro al rettangolo di marmo a cinque metri da terra dove abitano da quarant’anni.
Quindi, è normale. Se non hai mai sofferto con la gola, è strano che ti venga la tonsillite. In generale, se nasci sano, non è previsto che ti ammali. Stupore. Non hai mai sofferto. Non vai soggetto.
Bah. Le feci notare una volta che, a voler applicare rigorosamente questa logica, si sarebbe potuto legittimamente concepire un dialogo di questo tipo:

-Hai saputo? E’ morto Tizio.
-Uh Gesù, che strano. Ma come, quello è sempre stato vivo…

Il che mi porta a fare una piccola divagazione su una credenza popolare, un detto molto usato da mia madre, quello che dice che chi fa una certa cosa o si trova in una determinata situazione a capodanno, poi farà quella cosa o si troverà in quella situazione tutto l’anno. Ora, a parte che io non mi ubriaco, non vado a dormire all’alba, non mangio lenticchie e non stappo spumanti tutto l’anno, c’è da fare una constatazione meramente logica che dirà una parola definitiva sull’argomento. Se infatti è incontrovertibilmente vero che chi muore a capodanno poi resta morto tutto l’anno, non altrettanto si può dire, o almeno non con la stessa granitica certezza, di chi a capodanno è vivo. Almeno, così mi pare.
Ma ora debbo lasciarvi, perdonatemi. Devo andare a fare il mio solito gargarismo serale. Poi prendo l’ansiolitico e vado a dormire. Buonanotte!

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Camera oscura

Blow-upBergman Antonioni sono morti a poche ore di distanza l’uno dall’altro. Il povero Michel Serrault, anch’egli dipartito in questi giorni, è stato un piccolo vaso di coccio tra due colossali anfore di bronzo, in quanto ad attenzione dei media.
A rischio di accodarmi ai necrologi di circostanza, vorrei spendere qui due parole per l’occasione. Di Bergman confesserò di poter dire davvero poco. Ognuno ha le sue lacune. Io ad esempio, non ho (ancora) letto Proust. E non ho praticamente mai visto un film di Bergman. Ma ho intenzione di colmare la lacuna, con tempo e pazienza. E mi fido degli esperti e degli amici. Come questo.
Ma su Antonioni voglio, devo dire qualcosa. Ognuno, credo, ha la sua piccola lista di film (e di libri, di canzoni, di dischi) che gli hanno cambiato la vita. Quelle esperienze che si fanno in adolescenza e che segnano definitivamente il tuo modo di guardare il mondo, di sognarlo, di esprimerlo. Per me, uno di quei film, visto quasi immediatamente dopo 2001 (che è il primo della lista), è senz’altro Blow Up. Ricordo perfettamente quella scassatissima e microscopica sala (“Cinema Italnapoli”), specializzata in rock movies, recuperi di terza visione e “cinema d’essai” dalla quale uscii stupefatto e stravolto, alla fine della partita di tennis senza palla. Analogamente al film di Kubrick, questa esperienza obliqua, onirica,  misteriosa, piena di silenzi, di suoni e di immagini memorabili, totalmente immersa nel periodo ed allo stesso tempo astratta, atemporale, mi aveva aperto una porta della testa. Anni dopo, avrei scoperto che la storia era ispirata ad un racconto di Cortázar (quello che ha regalato il nome a questo blog, uno scrittore che amo incondizionatamente). E tutto mi sembrava tornare, in una corrispondenza sincronistica. A differenza di Kubrick, Antonioni non ha sempre sfornato film folgoranti come quello, e i suoi limiti, oggi, sono facili da individuare. Ma film come Professione Reporter e probabilmente altri (che neppure ho visto, e che oggi ho più desiderio di vedere), restano per me delle piccole zone di luce, diamanti muti e risplendenti che servono ad indicarti la strada quando fa buio, quando non sai dove andare. Il bello è che le strade che ti indicano non sai dove ti portano, sono sghembe, tortuose, innecessarie, e ti sembra di essere più confuso di prima. Ma emozionato e vivo.

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Mondo Cane

Ieri, ho sentito una di quelle notizie -capitano- di fronte alle quali la reazione è “ma davvero solo ORA hanno deciso così”?

La notizia è la seguente: L’Unione Europea ha deciso di proibire l’importazione (che finora, a quanto pare, era fiorente) di pellicce di cane e gatto prodotte in una serie di paesi dell’estremo oriente, principalmente in Cina.
La notizia (al tg2) era corredata di immagini, parzialmente “purgate” di allevamenti dei suddetti animali.  

Ci sono certi argomenti su cui ognuno gioca la propria personale inclinazione alla empatia del dolore. Il mondo è pieno di tragedie, di uomini donne e bambini morti, uccisi, resi schiavi, utilizzati per il traffico di organi, violentati e via dicendo. Io personalmente -non perché sia insensibile alle suddette tragedie, tutt’altro- provo una stretta particolare allo stomaco quando vedo e sento cose, magari meno “gravi” che riguardano gli animali, ed i cani  in particolare. Debolezza da zitella anglosassone, forse. Nessuno è perfetto. Ma forse anche perchè mi pare di leggere in questi comportamenti umani una metafora, un indizio svelato, un archetipo di ciò che di peggio è possibile fare quando non ci sono barriere morali ad arginare un tipo di comportamento che è la quintessenza del male: l’indifferenza alla sofferenza o più spesso il godimento sadico nei confronti di esseri senzienti coi quali c’è relazione affettiva, inermi ed innocenti, giustificato dall’interesse materiale. Che siano cani e gatti è solo un dettaglio. Non per loro, ovviamente.

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God bless anyone but you stupid bastard

Sempre a proposito di morti ammazzati e sul suo modo di trattarli (o meglio, di utilizzarli, in realtà, per trastullarsi con altro) nella comunicazione.
Sul suo Blog, Matteo Bordone ha scritto uno splendido post, che sottoscrivo integralmente. Parte da un editoriale di Christian Rocca sul Foglio, che, nell’affrontare la strage in Virginia, intitola il suo pezzo “L’America è un po’ pazza” e conclude dicendo.

L’America è Blacksburg o Columbine, ma è anche la società più vitale del pianeta e l’unica capace di prendersi sulle spalle il peso del suo e del nostro futuro.

Io, nel post di Bordone, ho lasciato un commento, che vi riporto qui. Perchè per me l’argomento è uno di quelli che da un po’ di tempo ritornano quasi ossessivamente.

Penso che nel caso di Rocca (e di Ferrara) ci troviamo di fronte ad un desolante fenomeno psicologico, tipico di molte persone dall’intelligenza acuta ed inquieta (ma anche, di riporto, di parecchi stupidi). Si comincia con lo stigmatizzare -giustamente – le banalità conformistiche, gli automatismi mentali ideologici, le frasi fatte, lo scarso uso del ragionamento, la faziosità, si prosegue con l’atteggiamento “controcorrente” di default, si approda alla acritica faziosità speculare, avendo fatto il giro completo. Alla fine ci si sente comunque molto intelligenti e molto etici, senza un particolare sforzo cognitivo. Esattamente come quelli da cui ci si voleva differenziare.

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Panic

izzehG ocirnE

Ho bisogno di fare una premessa.
Non mi piace incazzarmi, fare il moralista, fare il fustigatore di costumi, l’indignato. E questo è uno di quei rari casi in cui combatto con un’onda emotiva forte, personale. Sono tentato da tutte quelle cose che in genere tento di evitare. Ho voglia di incazzarmi davvero, e di prendermela personalmente con qualcuno. Cercherò di non farlo. Ma non ho intenzione di nascondere il mio stato d’animo.
In questi giorni, si festeggiano i 18 anni di Blob. Tutti a celebrare, dagli addetti ai lavori fino a Prodi e Berlusconi che inviano messaggi ammantati di compiacente circostanza. Fin qui tutto normale. Anch’io, in generale, sono stato e sono uno spettatore di questa rivoluzionaria trasmissione, che mi ha regalato di tempo in tempo momenti di divertimento, di inquietudine e di irritazione.
Ma succede questo: è stata realizzata un trasmissione speciale per l’anniversario, presentata in gran pompa ieri. Il titolo è Don’t panic. La frase riprende quella pronunciata dall’assistente del tesoriere della Pennsylvania, Budd Dwyer, quando quest’ultimo si suicidò sparandosi in bocca in diretta televisiva. Quel filmato fu passato su Blob in prima serata, integralmente, e fu uno dei momenti “topici”, per così dire della sua storia.

Qui devo fermarmi e aprire una parentesi del tutto personale. Read more »

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