3 febbraio 2017 by Marco

Mettere insieme i pezzi, ricostruire qualcosa che restava indistinto nella memoria.
Il 5 febbraio 1970 va in onda la prima puntata di Rischiatutto.
Il 5 ottobre dello stesso anno (esattamente otto mesi dopo) esce Led Zeppelin III.
Sentite un po’ (link audio sottostante).
Immigrant Rischio
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22 luglio 2010 by Marco
Chi ci ricorda / 7
La gloriosa rubrica di confronti canzonettari ritorna qui con un bizzarro accoppiamento vintage-camp.

Nell’anno di grazia 1974, Brian Eno, fuoriuscito dai Roxy Music ancora carico di piume e paillettes ma già geniale manipolatore di suoni, mette mano alla sua prima prova da solista, lato canzoni pop eterodosse, tra residui di glam e sperimentazioni geniali, che anticipano e tracciano la via di quasi tutto ciò che di buono sarebbe apparso sulla scena nei successivi vent’anni o giù di lì. Baby’s on fire è il suo primo singolo, che vede tra gli altri illustri ospiti Robert Fripp alla chitarra.
In quegli stessi anni, un giovane artista milanese, Ivan Cattaneo, cantante tra i primissimi a dichiararsi gay militante, si muoveva nei territori “alternativi” e creativi, anch’egli saturo di fondotinta e buone idee. Apparentemente originalissime, ma in realtà con un orecchio e forse due rivolte oltremanica, e proprio lì dove Eno aveva cominciato a seminare le sue intuizioni da non musicista mentre stappava il flacone di struccante. La somiglianza di L’elefante è capovolto?, uscito come singolo nel 1976 per la produzione di Roberto Colombo, allora considerato il Frank Zappa italiano, col brano di Eno, oggi pare evidente. Ma in un contesto nazionale in cui i modelli dominanti erano tristissimi cantautorate “impegnate” o terribili prolissità progressive, quel riferimento era una boccata d’aria fresca.
Poi venne Italian graffiati, e poi ancora Music Farm, e poi non saprei. Ma questa è un’altra storia.
Brian Eno: Baby’s on fire / Ivan Cattaneo: L’elefante è capovolto?
- Brian Eno: Baby’s on fire (single version) (1974)
- Ivan Cattaneo: L’elefante è capovolto? (1976)
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16 dicembre 2007 by Marco

Questo post è dedicato agli happy few che condividono con me alcuni piccoli culti musicali.
Evento numero uno, di fondamentale importanza per le poche decine di persone al mondo che come me hanno adorato un piccolo prelibato disco degli anni ’80, rarissimo anche allora su vinile e poi diventato pressoché introvabile: il meraviglioso Out of the blue di Blue Gene Tyranny.
Ebbene, è stato finalmente ripubblicato su CD, e lo trovate su Amazon, cliccando sull’immagine a fianco (l’intero disco è scaricabile in Mp3 per la bellezza di $ 3,56, un paio d’euro!).
Per coloro che non lo conoscono, c’è poco da dire: fidatevi, è un disco imperdibile, delizioso, inclassificabile. Su Amazon trovate anche dei piccoli sample delle canzoni. Compratelo e non vi pentirete.
Evento numero due, passato misteriosamente sotto silenzio, almeno in Italia ed almeno per quanto mi riguarda. Lo sapevate che Burt Bacharach e Brian Wilson hanno scritto una canzone insieme, cantata da quest’ultimo e pubblicata su un disco strano che raccoglie classici riarrangiati e brani indediti di alcuni giganti della canzone americana (Bacharach e Wilson, appunto, Carole King, Kenny Loggins, Paul Williams ed altri)?
Bè, sia detto senza nessuna intenzione blasfema, ma per me è quasi come sapere che il Padre e lo Spirito Santo hanno scritto insieme una preghiera (il Figlio sarebbe Paul McCartney, nella mia personale trinità pop). Cliccando sull’immagine a fianco, si va su Amazon, per chi fosse interessato. A questo link info estese sull’album, con samples audio e video. Qui invece si può sentire in streaming tutto il disco, compresa la sopracitata canzone, sulla quale non mi pronuncio ancora. Va accostata con reverenza e giudicata con calma. E sarà comunque, temo, per quanto bellissima, al di sotto di quanto è lecito aspettarsi, per evidenti motivazioni teologiche.
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5 dicembre 2007 by Marco
Il titolare è contrito, traboccante rimorsi, ha containers di cenere pronta ad essere aspersa sulla sua ormai purtroppo vastissima fronte. Ma è andata così.
Forse mai era stato così latitante. Ma ha avuto qualche scusante. Una delle quali per il momento è riservata. Ma verrà resa palese inorno al 15 dicembre (incrociate le dita se vi va).
Ora -dopo la logora retorica della terza persona, riprendo la prima- ho tutte le intenzioni di ridare un po’ di continuità a questo blog, che tra un paio di mesi peraltro festeggerà il secondo anno di vita. Non che non ci siano, o non ci siano stati in questo periodo pretesti, idee, riflessioni, fatti e cose più o meno interessanti di cui parlare. Ma le energie e il tempo non erano evidentemente abbastanza. Dunque qui si riprende, e si riprende con una serie di pillole cinematografiche, due o tre parole sui film che ho visto nell’ ultimo periodo, giusto per non avere la sensazione della colpevole omissione.
Due giorni a Parigi, esordio alla regia di Julie Delpy è un film non indispensabile, logorroico ed imperfetto, ma non spiacevole da vedere, con momenti di divertimento (benchè si abbia spesso la sensazione di un Woody Allen minore, francese e davvero segaiolo).
La giusta distanza di Mazzacurati è altrettanto non necessario per le vite di ciascuno, non particolarmente nuovo negli ambienti e nei temi, ma ci si spendono volentieri aggettivi consunti come carino e garbato, utili per coloro per i quali tali aggettivi bastano per spendere i soldi di un biglietto. Per alcuni altri, o anche per gli stessi, potrebbe essere sufficiente la folgorante bellezza della protagonista.
Die Hard -ebbene sì-, visto in compiaciuta ed un po’ snob compagnia virile in pieno trend antiintellettuale -e quindi più che mai intellettuale, purtroppo- mantiene fin troppo ciò che promette. Si esce dalla sala sghignazzanti, commentando la quantità abbondantissima di cliché divertenti perché spudorati e quella ridottissima delle espressioni del protagonista e segretamente vogliosi di silenzi antonioniani, di camere fisse, dei monacali cineforum della nostra adolescenza.
Il film di Coppola, Un’altra giovinezza, meriterebbe una trattazione ben più estesa di queste quattro righe. Va visto da tutti coloro che amano Coppola ed il cinema in genere, e, massì, la letteratura, e Borges in particolare. Non perchè sia chissà quale capolavoro. Imperfetto, spesso implausibile, per qualcuno addirittura irritante, conserva però una magia ed una capacità di evocazione visiva che solo Coppola avrebbe potuto realizzare così (è probabile che chiunque altro, a partire dallo stesso materiale, avrebbe prodotto un’indigeribile schifezza). Mi è sembrato di scorgerci, oltre a Borges a camionate, anche citazioni, meno esplicite, di Kubrick. Coppola, Borges, Kubrick. Nella mia giovinezza, ma forse anche adesso, questi tre nomi rappresentavano una intoccabile trinità laica. Non potevo non vederlo, e, vistolo, non parlarne.
Che dire di Ratatouille? Se leggete i post precedenti relativi ai film d’animazione d’eccellenza, che amo alla follia, capirete già dove vado a parare. Splendido, intelligente, godibile, persino abbondante (in termini di lunghezza, cosa rara e faticosa, per chi lo realizza). Morale solo apparentemente banale: bisogna accettare ciò che si è. Ovvero, se sei topo, non puoi cambiarti in colombella. Ma se essendo topo sei igienista e buongustaio, e proustiano alchimista di sapori e sensazioni, devi accettare anche questo e lottare per la tua anomalia.
Across the universe, last (e se non è least, quasi), è il terzo, ma trionfatore sugli altri, della categoria degli innecessari. Innecessario fino a sfiorare l’inutilità. Quasi molesto per un Beatle fan come me. Se si glissa sulla storia scema e banale, sulla forzata ambientazione storico-sociologica-giovanilistica altrettanto convenzionale ed inoffensiva e ci si sofferma sulle canzoni -dignitosamente arrangiate ed interpretate- e su alcune idee visive non male, si può vedere. A patto, una volta ritornati a casa, di rivedersi immediatamente Yellow Submarine per ricordarsi cosa fosse davvero la creatività e la visionarietà innocente ed intelligente dei Beatles e del loro tempo. Roba rara al giorno d’oggi, signora mia.
PS: dopo aver pubblicato il post, mi sono reso conto di avere freudianamente rimosso (non a caso) un film visto recentemente: Tideland di Terry Gilliam. L’aggettivo delirante in questo caso si applica nella sua pienezza. E’ un vero delirio “d’autore”, una pippa pirotecnica, spesso sgradevole (mai però come Paura e disgusto a Las Vegas), talora con belle immagini. Ma si esce dal cinema scuotendo la testa all’unisono. Questo Gilliam qua, che era stato in qualche modo il maestro di Tim Burton, ora ne sembra il surrogato andato a male. Ma molto. Quasi tossico (parola pertinente al contenuto del film, peraltro).
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19 ottobre 2007 by Marco
C’era una volta una bellissima canzone.
Una canzone bellissima di un fantastico disco di un meraviglioso gruppo.
La conoscevamo in molti, non moltissimi, ma un bel po’ di amorevoli cultori della buona musica.
Sono riusciti a farmela odiare, ‘sti stronzi.
Ma sopratutto a farmi odiare l’Enel. Quasi quanto ho detestato Stranamore. Ottima cosa, per una campagna pubblicitaria.
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12 luglio 2007 by Marco
Chi mi dirà se stai nel perduto
labirinto di fiumi secolari
del mio sangue, Israele?
Jorge Luis Borges
Martedi scorso sono stato ad uno dei più bei concerti cui abbia assistito negli ultimi anni, ed è stato un evento abbastanza inaspettato. Si trattava di Noa, accompagnata dal Solis String Quartet e da Gil Dor. La scaletta consisteva esclusivamente in canzoni napoletane classiche.
L’aggettivo che mi sembra più adatto ad esprimere il succo di quel che ho ascoltato e visto è: emozionante. Sono stato, letteralmente, con gli occhi lucidi per tutto il tempo, ed è davvero cosa rara, oggi come oggi. Ogni diffidenza, ogni barriera critica razionale, ogni tentazione di snobismo sono venuti meno di fronte ad un piccolo miracolo artistico. Una (bravissima, lo sapevo già) cantante ed autrice che viene da Israele, che nasce come star pop nel mondo anglosassone e che, senza tema di smentita, è oggi la migliore, la più brava e genuina interprete di una tradizione che -formalmente- non le appartiene, ma che in realtà è riuscita a far sua ed a esprimere con una verità, un emozione ed un respiro che nessun’altra o altro interprete vivente, per quanto napoletano, si sogna.
La sua voce straordinaria è un mezzo, non un fine (è questa la differenza tra i virtuosi e gli artisti). Uno strumento per esprimere senso ed emozione. Così come gli arrangiamenti per chitarra e quartetto d’archi, perfetti, impeccabili. “Giusti” senza essere ovvi. Al di là di qualsiasi inutile disputa tra tradizione e contemporaneità. Intelligenti e discreti: esattamente ciò che serviva.
Un effetto collaterale, del tutto imprevisto, di questo concerto è stato anche una temporanea riconciliazione personale con questa Città, con la quale ho ormai da tempo un pessimo rapporto. Almeno per la durata dello spettacolo, ho avuto un senso di alleggerimento, di riconoscimento, di ritorno a casa. Potevo identificarmi in quel discorso sentimentale. Ed ho potuto farlo perchè un altro magnifico regalo di Noa è stato il portare il “sentimento napoletano” su un orizzonte evocativo allargato. Su uno scenario identitario non limitato ad un golfo, ma all’Europa intera, a quanto di ebraicamente cosmopolita -sorprendentemente- circola nel nostro sangue, nel mio, in quello di Noa e Gil, in quel “fiume del sangue” Borgesiano cui nessuno può illudersi di sfuggire, e in cui si può felicemente ritrovare un’identità allo stesso tempo specifica ed allargata. Sentivo Era de maggio e mi sembrava di stare allo stesso tempo a Napoli e a Parigi, oggi e un secolo fa, senza nessun contrasto. Ascoltavo la versione in ebraico di Lily Cangy (già abbastanza ironicamente cosmopolita di per sè: chi me piglia pè francesa, chi me piglia pè spagnola…) e mi sembrava di sentire Marlene Dietrich nella canzone di Lola dell’Angelo Azzurro. L’Europa. Orizzonti che si allargano. L’Europa, molto più che l’abusato Mediterraneo. L’Europa fecondata dalla diaspora, dal dolore e dall’arte di chi ci ha errato nei secoli ed ha contribuito a costruire il meglio della nostra cultura. Il mondo, lo sguardo e l’emozione davvero globali. L’esatto contrario del nazionalismo e dell’ignoranza strapaesana e camorrista.
Mi spiego meglio. Ed apro una parentesi. Read more »
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