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Pompieri, fotografi, disegni e libri

Ferrania Pancro - illustrazione di Guido ScarabottoloQuella che vedete qui di fianco, e che potete ingrandire cliccandoci sopra, è l’illustrazione che il grandissimo Guido Scarabottolo ha realizzato per il mio racconto Ferrania Pancro. Il racconto e l’illustrazione fanno parte di Bombeiros, l’antologia di racconti illustrati edita da Tapirulan e che è stata presentata il mese scorso a Cremona, nella bizzarra sede della caserma dei vigili del fuoco.

Non posso dire altro se non che quest’illustrazione è semplicemente quanto di meglio potessi immaginare per questa minima storia di memoria fantasmi e fotografie, che ne viene nobilitata ben oltre i suoi meriti. Ed è per questo che ne parlo solo ora: ho finalmente ricevuto il file dell’illustrazione e l’autorizzazione di Guido a pubblicarla qui. E lo faccio, con gratitudine. Ci aggiungo l’inizio del racconto e il link per acquistare il libro online, ove mai foste curiosi di sapere come va a finire.


Io sono quello in alto a destra. Il ragazzino coi pantaloni corti che fa la verticale vicino al parapetto. Più lontano, dal lato delle antenne, c’è Lucia, la ragazza che sta a servizio dai Castelli – noi all’epoca le chiamavamo le serve, oggi non si usa più. Lucia sta stendendo la biancheria, e si vede solo la schiena, che si piega in avanti verso il catino che sta per terra.
In primo piano, Antonio, il portinaio, con gli occhiali e il berretto – tutti i portinai portavano il berretto, qualcuno pure la divisa, nei palazzi dei ricchi. Questo non è un palazzo di ricchi, certo, ma neanche di poveri. Sotto la superficie del terrazzo – si vede nella foto l’ammattonato, con le piastrelle di cotto, un piccolo lusso – si estendono verso il basso cinque piani, ognuno con tre appartamenti. E in questo momento, nel momento in cui è stata scattata la foto, quasi in ogni casa c’è qualcuno. A cucinare, a lavorare, a letto con la febbre. A vivere. Le rare televisioni, posate su autorevoli catafalchi, si accenderanno solo la sera, le trasmissioni cominciano alle cinque.
Fosse una giornata come le altre, dovrei essere a scuola, ma la mia classe oggi è andata in gita d’istruzione a Pompei, e io, che sono allergico alla polvere e alle cose vecchie in genere, sono stato esentato.
La fotografia l’ha scattata Martino, il figlio grande di De Curtis, il ragioniere. Ha una bella macchina moderna per fare le istantanee, una Leica che gli ha regalato il cugino che sta in Germania, e oggi aveva voglia di usarla. Ci ha convocati tutti qui sul tetto, anzi sul terrazzo, che stamattina c’è una bella luce, e si vede pure un po’ di mare, in fondo. Quelli disponibili a salire su erano pochi, anzi quasi nessuno: solo Antonio e io, che gli stavo appresso in portineria, a far domande sui postini e i francobolli, sul telefonino e l’ascensore, ad aiutarlo a infilare le buste nelle buche allineate all’ingresso del palazzo.
Lucia era già lì, e quando le abbiamo chiesto se voleva farsi fotografare ha risposto che no, che si vergognava, e che poi doveva stendere i panni, non poteva perdere tempo, aveva un sacco di cose da spicciare. Di tempo ne aveva poco. Pure io, anche se non lo sapevo ancora.
Martino ci ha messi in posa, o quasi. Ci ha inquadrato. Eccoci qui. Fermi. Ha scattato.
Io sono fermo, faccio la verticale. Sono fermo a fare la verticale da quarantotto anni. Lucia da allora è curva sui panni da stendere, e Antonio sorride instancabilmente, col cappello in testa. Da tutto questo tempo noi tre condividiamo una strana condizione, che non avremmo mai potuto immaginare, quando non eravamo ancora morti, come adesso. Morti e immobili: Lucia, Antonio ed io. Antonio ebbe un brutto male, e se ne andò dopo quattro anni. Lucia, che smise presto di lavorare, per l’artrite, e non riuscì a prendere marito, è morta l’anno scorso, in un ospizio. Io però fui il primo. Un mese dopo aver fatto quella verticale, finii per distrazione sotto le ruote di un autocarro mentre attraversavo la strada. Ero quasi arrivato a scuola. (…)

Bombeiros è acquistabile online sul sito Tapirulan.it

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Fair game

Ieri, 15 agosto, su un quotidiano napoletano, è uscito un raccontino estivo del vostro titolare. Data la data e la estrema improbabilità che lo abbiate letto numerosi (qui il link al pdf online), lo ripubblico qui. Buone vacanze.


angelo del silenzio“Noi veneriamo il silenzio”.

Il cartello, stampato in grossi caratteri azzurrini ed incorniciato in legno scuro, torreggiava sulla parete della sala esattamente in corrispondenza dell’austero chignon della bibliotecaria, l’irreprensibile miss Eunice Bartlett. Ora va precisato, per amor di verità, che non ci troviamo in una nebbiosa città britannica, magari in un solenne edificio vittoriano, odoroso di polveri secolari accumulatesi tra le pagine di pregiati volumi. No. La scena testé descritta ha luogo nella biblioteca comunale di Carditello, ridente paesino dell’entroterra campano, e, ci duole dirlo, il nome della bibliotecaria, che avevamo contraffatto per creare un’illusione romanzesca, è in realtà quello di Maria Addolorata Cannatiello, coniugata Piscopo. Era il quindici di luglio, e dalle finestre della non ampia sala, spalancate per il caldo e per la mancanza di climatizzazione, giungevano garrule le voci di giovani carditellesi intenti al giuoco del football (questo si, indubitabilmente britannico), ora incitantisi l’un l’altro nella tensione agonistica, ora veementemente recriminanti per occasioni perse o ingiustizie subite.
Si capirà dunque come il cartello descritto all’inizio, visto nel suo contesto, suoni come la rassegnata venerazione di un nume assente, di un dio che rifiuta di mostrarsi, piuttosto che un invito a non far baccano.
Cappiello Anna si avvicinò al banco e chiese a Mary – diminutivo anglosassone della signora Piscopo – se teneva il libro di quello scrittore russo che aveva scritto guerreppàce, ma no però guerreppàce, quell’altro con quella che poi alla fine si votta sotto al treno.
-  Ah, Anna Karenina?
-  Eh, si, quello. Chella cessa della Cacace ce l’ha assegnato per le vacanze. Speriamo che non è troppo grosso.
La pseudo-Eunice guardò Anna – curiosamente omonima della sfortunata eroina tolstoiana –  con un’espressione di biasimo nel sopracciglio e si avviò verso gl’impolverati scaffali di fronte al finestrone.
Nel preciso istante in cui, individuato il volume, lo estraeva con piglio professionale, fu raggiunta in piena nuca da un Super Santos introdottosi fulmineo dalla finestra a seguito di un mal calibrato cross di Caramiello Eduardo, che per inciso era stato rimandato in tre materie, ed in quel momento avrebbe dovuto essere dal professore Caso a fare ripetizione.
Chella granda bucchìn’ ‘e mammeta!…
La frase volteggiò leggiadra dallo spiazzo sottostante fino alle delicate orecchie di Maria Addolorata – nomen omen, almeno in questa circostanza –, che era rovinata sul linoleum verdolino. Fu seguita però da un più ragionato e supplichevole Signurì, scusate, ce lo ributtate il pallone?
Anna si era intanto precipitata a soccorrere la sventurata bibliotecaria e, presa da un moto di insorgenza civile, urlò verso la finestra: Vuò veré che mò t’o schiatto?! E manco chiede scusa! Ma siete proprio degli zulù!
Questa frase ebbe un effetto insperato.
Il Venerato Silenzio fece finalmente la sua comparsa. In lontananza, dalle verdi campagne dell’agro atellano, arrivavano smorzate le voci di cicale e cardellini, accompagnatori angelici del dio che aveva conquistato, temporaneamente ma con abbacinante gloria, quei settanta metri quadri di legno, muratura e alluminio anodizzato.
Mary Piscopo si rialzò, e spolverandosi la gonna lanciò uno sguardo di approvazione alla giudiziosa ragazza. Le porse il libro (pp. 804), suscitando nella giovane un fremito d’orrore, e le disse a bassa voce: – E’ bello, ti piacerà.
Ma il Venerato sparì così come si era presentato. I giovani sportsmen vociavano di sotto, dopo essersi ripresi dallo stupor mundi che li aveva attanagliati. La signora Cannatiello in Piscopo si aggiustò di nuovo la gonna e, rinunciando ad un proposito pedagogico più drastico per mancanza di forbici a portata di mano, gettò il pallone dalla finestra. Una barbarica ovazione lo accolse.
Anna salutò Mary, uscì dalla sala, si rimise le cuffiette e riprese l’ascolto di Antonacci.
La bibliotecaria si sedette dietro al banco e riprese a leggere l’articolo di Donna Moderna intitolato “Evasione fiscale e matrimoni omosessuali: le emozioni della settimana”.
Fuori, l’estate risplendeva sui verdi campi di asparagi e sulle placide bufale al pascolo.

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Spiedino

Souvlaki - Antologia di racconti illustratiE’ uscita da poco una raccolta di racconti illustrati, Souvlaki, che comprende anche un mio contributo. So di essere giudice non imparziale, ma mi sembra un bell’oggetto. I racconti (almeno quelli degli altri) sono belli, e le illustrazioni (tutte di bravissimi illustratori italiani) forse anche di più. E’ un’operazione fatta con amore e professionalità, da persone -i ragazzi di Tapirulan- che amano il loro mestiere.

Se, come spero, morite dalla voglia di leggerlo avendolo tra le mani, potete comprarlo qui.

Se volete leggerlo, non vi va di spendere pochi euro, e non vi fa specie uccidervi la vista sui monitor, qui c’è una versione online (in flash, carina, con le pagine sfogliabili).

Questa è la pagina del libro su Anobii.

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Buona fine

31 dicembreIl titolo del presente post, per coloro che non avessero colto la sottile ironia, si riferisce ovviamente all’anno in corso. Lo preciso per evitare di passare per menagramo.
Non potevo finire il 2007, nonostante la perdurante inerzia che mi coglie, senza un post conclusivo. Mi ritrovo tra le mani un raccontino che ha qualche nesso con il capodanno, e qui lo trascrivo. Auguri. E buon principio.

Per un lungo periodo, intorno ai sei anni, mi sono ammalato periodicamente di tonsillite.
La prima volta mia madre, osservando le placche che avevo in gola, disse stupita: “Che strano!.. Tu non hai mai sofferto di tonsille…”
Pronunciò la stessa frase poco tempo dopo, quando mi ammalai di nuovo.
Così pure la terza volta.
Quando, dopo un paio d’anni e svariate decine di episodi di febbre con placche in gola, mia madre continuava a stupirsi del fatto che mi veniva la tonsillite pur non avendone mai sofferto, cominciai a rendermi conto che c’era qualcosa che non tornava. Quel ripetitivo stupore espresso in quella frase pronunciata ogni volta pressoché identica, con minime varianti, era il sintomo di qualche problema di rapporto con la realtà.
Col tempo ho capito che questa storia fotografa con precisione l’approccio di mia madre alla vita.
Lei, costretta da una paura esistenziale che non le da tregua, concepisce il mondo staticamente, come un quadro od una foto. Un fermo immagine in cui vengono cristallizzate in eterno le cose e le persone. Uno scenario rassicurante da cui è escluso ogni divenire, ogni possibilità di evoluzione, ogni incognita, potenzialmente foriera di apocalissi ingovernabili, inconcepibili. Meglio quindi abbandonare la dinamica per la statica e crearsi il proprio piccolo album di fotografie, e andarsele a guardare ogni tanto. Tanto quelle non si muovono, restano lì. Il pupo insaponato nella vasca non cresce, non si ammala, non va via di casa, non ti dà dispiaceri. La coppia di sposi sull’altare resta lì per sempre a guardarsi sorridente, mano nella mano col prete di fronte che li sta benedicendo. Il nonno e la nonna, nello studio del fotografo, in posa un po’ rigida, con la tendina ad onde sullo sfondo, tradiscono si un certo disagio, dovuto alla scarsa familiarità con quei posti dove bisogna stare fermi, fa caldo e ci sono tutte quelle diavolerie moderne, ma tutto sommato hanno una bella faccia e stanno certo meglio lì che dietro al rettangolo di marmo a cinque metri da terra dove abitano da quarant’anni.
Quindi, è normale. Se non hai mai sofferto con la gola, è strano che ti venga la tonsillite. In generale, se nasci sano, non è previsto che ti ammali. Stupore. Non hai mai sofferto. Non vai soggetto.
Bah. Le feci notare una volta che, a voler applicare rigorosamente questa logica, si sarebbe potuto legittimamente concepire un dialogo di questo tipo:

-Hai saputo? E’ morto Tizio.
-Uh Gesù, che strano. Ma come, quello è sempre stato vivo…

Il che mi porta a fare una piccola divagazione su una credenza popolare, un detto molto usato da mia madre, quello che dice che chi fa una certa cosa o si trova in una determinata situazione a capodanno, poi farà quella cosa o si troverà in quella situazione tutto l’anno. Ora, a parte che io non mi ubriaco, non vado a dormire all’alba, non mangio lenticchie e non stappo spumanti tutto l’anno, c’è da fare una constatazione meramente logica che dirà una parola definitiva sull’argomento. Se infatti è incontrovertibilmente vero che chi muore a capodanno poi resta morto tutto l’anno, non altrettanto si può dire, o almeno non con la stessa granitica certezza, di chi a capodanno è vivo. Almeno, così mi pare.
Ma ora debbo lasciarvi, perdonatemi. Devo andare a fare il mio solito gargarismo serale. Poi prendo l’ansiolitico e vado a dormire. Buonanotte!

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Il presente vale anche per ringraziamento

Questo è il racconto che è stato finalista al Premio Loria 2006. Ora è incluso anche nella raccolta uscita per le edizioni APM. Chi fosse interessato, puo richiederla qui.

Aldous Huxley fotografato da Cecil BeatonC’è un gran fiorire di resurrezioni, ultimamente in giro. Succede che la gente a un certo momento muore, spegnendosi serenamente, circondata dall’affetto dei suoi cari che affranti lo annunciano a tipografi e a sportelli necrologici, e fin qui tutto normale. I morti se ne stanno buoni a letto per un po’, tra i pianti e le parole sottovoce, il volteggiare di tazzine di caffè, i primi cauti pensieri sulle procedure d’eredità, i calcoli, le strategie d’azione che cominciano a costruire nella penombra le basi per i futuri conflitti familiari. Si scelgono legni e rifiniture, si apre alla porta, si risponde al telefono, il portone è mezzo chiuso e ci siamo scordati di avvertire Zia Titina quando sul più bello, quando sta per arrivare la cassa, una voce remota e fin troppo familiare dice di aspettare un momento, che si erano tutti sbagliati, e al diavolo le banche, i fioristi e Zia Titina, e per il momento continueranno a volersi tutti bene, mentre un disturbo neurovegetativo li lambisce ad uno ad uno lasciandogli una debolezza alle ginocchia. Il moto delle tazzine di caffè, come per un arcano fenomeno gravitazionale, cambia drasticamente figura ed intensità. Dapprima soggiace ad un arresto repentino, congelandosi davanti a bocche semiaperte o sotto caffettiere immobili che le riempiono fino a farle traboccare, poi abbraccia il caos entropico delle cadute e frantumazioni sul pavimento, dei lanci a seguito di scottatura e degli acrobatici recuperi volanti, infine riprende orbite regolari ma più veloci e quasi frenetiche, molte delle quali convergono in direzione della ex buonanima, che peraltro di un caffè sembra proprio avere bisogno, o forse proprio no, chissà.

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Come visitare lo studio d’un pittore

Achille Campanile, da In campagna è un’altra cosa (1931)

Disegno di Saul SteinbergLa visita allo studio d’un pittore è una cosa difficile.
Si comincia, di solito, a lodare sventatamente i primi quadri con superlativi; dopo qualche passo, l’incauto che s’è slanciato a cuor leggero su questa via, deve ripetersi o tentar qualche variante che, a chi udisse senza vedere, farebbe credere trattarsi d’un pranzo. E poiché la buona educazione, e anche il pittore, vogliono un crescendo ammirativo nei giudizi, a un certo punto il visitatore non sa come andare avanti. Se il primo quadro è bellissimo, il secondo splendido, il terzo maraviglioso e il quarto magnifico, come sarà il quinto? Mettiamo che sia sorprendente; al sesto vi voglio vedere. Per via del crescendo, esso non potrà che rientrare nell’ordine del soprannaturale. E dal settimo in poi?
Ecco. L’errore in cui cadono quelli che visitan lo studio d’un pittore, è di cominciar dai superlativi. Bisogna, invece, amministrare con previdenza il patrimonio degli aggettivi, magari cominciandocon una certa freddezza. Ma se lo studio è molto fornito neppur questo è sufficiente; si comincerebbe con: “passabile, non c’è male, grazioso, bello”, e subito si ricadrebbe nel vicolo cieco dei “bellissimo”, eccetera. 
Dunque? Read more »

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