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In sintesi

RatatouilleIl titolare è contrito, traboccante rimorsi, ha containers di cenere pronta ad essere aspersa sulla sua ormai purtroppo vastissima fronte. Ma è andata così.
Forse mai era stato così latitante. Ma ha avuto qualche scusante. Una delle quali per il momento è riservata. Ma verrà resa palese inorno al 15 dicembre (incrociate le dita se vi va).
Ora -dopo la logora retorica della terza persona, riprendo la prima- ho tutte le intenzioni di ridare un po’ di continuità a questo blog, che tra un paio di mesi peraltro festeggerà il secondo anno di vita. Non che non ci siano, o non ci siano stati in questo periodo pretesti, idee, riflessioni, fatti e cose più o meno interessanti di cui parlare. Ma le energie e il tempo non erano evidentemente abbastanza. Dunque qui si riprende, e si riprende con una serie di pillole cinematografiche, due o tre parole sui film che ho visto nell’ ultimo periodo, giusto per non avere la sensazione della colpevole omissione.
Due giorni a Parigi, esordio alla regia di Julie Delpy è un film non indispensabile, logorroico ed imperfetto, ma non spiacevole da vedere, con momenti di divertimento (benchè si abbia spesso la sensazione di un Woody Allen minore, francese e davvero segaiolo).
La giusta distanza di Mazzacurati è altrettanto non necessario per le vite di ciascuno, non particolarmente nuovo negli ambienti e nei temi, ma ci si spendono volentieri aggettivi consunti come carino e garbato, utili per coloro per i quali tali aggettivi  bastano per spendere i soldi di un biglietto. Per alcuni altri, o anche per gli stessi, potrebbe essere sufficiente la folgorante bellezza della protagonista.
Die Hard -ebbene sì-, visto in compiaciuta ed un po’ snob compagnia virile in pieno trend antiintellettuale -e quindi più che mai intellettuale, purtroppo- mantiene fin troppo ciò che promette. Si esce dalla sala sghignazzanti, commentando la quantità abbondantissima di cliché divertenti perché spudorati e quella ridottissima delle espressioni del protagonista e segretamente vogliosi di silenzi antonioniani, di camere fisse, dei monacali cineforum della nostra adolescenza.
Bruno Ganz - Un’altra giovinezzaIl film di Coppola, Un’altra giovinezza, meriterebbe una trattazione ben più estesa di queste quattro righe. Va visto da tutti coloro che amano Coppola ed il cinema in genere, e, massì, la letteratura, e Borges in particolare. Non perchè sia chissà quale capolavoro. Imperfetto, spesso implausibile, per qualcuno addirittura irritante, conserva però una magia ed una capacità di evocazione visiva che solo Coppola avrebbe potuto realizzare così (è probabile che chiunque altro, a partire dallo stesso materiale, avrebbe prodotto un’indigeribile schifezza). Mi è sembrato di scorgerci, oltre a Borges a camionate, anche citazioni, meno esplicite, di Kubrick. Coppola, Borges, Kubrick. Nella mia giovinezza, ma forse anche adesso, questi tre nomi rappresentavano una intoccabile trinità laica. Non potevo non vederlo, e, vistolo, non parlarne.
Che dire di Ratatouille? Se leggete i post precedenti relativi ai film d’animazione d’eccellenza, che amo alla follia, capirete già dove vado a parare. Splendido, intelligente, godibile, persino abbondante (in termini di lunghezza, cosa rara e faticosa, per chi lo realizza). Morale solo apparentemente banale: bisogna accettare ciò che si è. Ovvero, se sei topo, non puoi cambiarti in colombella. Ma se essendo topo sei igienista e buongustaio, e proustiano alchimista di sapori e sensazioni, devi accettare anche questo e lottare per la tua anomalia.
Across the universe, last (e se non è least, quasi), è il terzo, ma trionfatore sugli altri, della categoria degli innecessari. Innecessario fino a sfiorare l’inutilità. Quasi molesto per un Beatle fan come me. Se si glissa sulla storia scema e banale, sulla forzata ambientazione storico-sociologica-giovanilistica altrettanto convenzionale ed inoffensiva e ci si sofferma sulle canzoni -dignitosamente arrangiate ed interpretate- e su alcune idee visive non male, si può vedere. A patto, una volta ritornati a casa, di rivedersi immediatamente Yellow Submarine per ricordarsi cosa fosse davvero la creatività e la visionarietà innocente ed intelligente dei Beatles e del loro tempo. Roba rara al giorno d’oggi, signora mia.

PS: dopo aver pubblicato il post, mi sono reso conto di avere freudianamente rimosso (non a caso) un film visto recentemente: Tideland di Terry Gilliam. L’aggettivo delirante in questo caso si applica nella sua pienezza. E’ un vero delirio “d’autore”, una pippa pirotecnica, spesso sgradevole (mai però come Paura e disgusto a Las Vegas), talora con belle immagini. Ma si esce dal cinema scuotendo la testa all’unisono. Questo Gilliam qua, che era stato in qualche modo il maestro di Tim Burton, ora ne sembra il surrogato andato a male. Ma molto. Quasi tossico (parola pertinente al contenuto del film, peraltro).

Vedi anche:

L’arte del sogno

L’arte del sognoQuesto film non è perfetto. Non è equilibrato. Non ha una storia, è sbilenco, strano, irrisolto. Eppure è prezioso. Trabocca di cose rare, quasi uniche. Ha la grazia. L’innocenza. L’intelligenza. La purezza. Lo sguardo. La gioia. E’ davvero raro vedere queste cose tutte insieme, oggi. Gli unici prodotti artistici recenti di mia conoscenza che posso avvicinare emozionalmente a questo sono, in letteratura, Molto forte, incredibilmente vicino di Foer e, sullo schermo, parte delle cose migliori di Tim Burton, come La sposa cadavere.
Avevo una grossa aspettativa per questa nuova opera di Michel Gondry, dopo il folgorante Eternal sunshine of the spotless mind (ometterò il titolo italiano per decenza, chi non sa di cosa sto parlando s’informi). Sono uscito dal cinema confuso e un po’ felice. Ripeto: non c’è, onestamente, da gridare al capolavoro, ma di questa esperienza visiva qualcosa di importante ti resta in circolo, ti continua a dare dei lievi capogiri, qualcosa di simile al ricordo di un bacio. A un bel sogno, appunto.
Ed il sogno che ingovernabilmente trabocca nella realtà e viceversa è tutta o quasi la storia di questo film sbilenco. I sogni costruiti artigianalmente dal protagonista, ma con un serissimo rigore scientifico. La Science des rêves è il titolo originale: ed è la scienza di Archimede Pitagorico e Buster Keaton, di Munari e Calder, di Tati e Chagall. Dei film di animazione dell’est che guardavamo sulla RAI da piccoli. Di macchine ‘inutili’ e bellissime come opere d’arte. Anzi, oggetti d’artigianato, giocattoli. Questo è un film fatto di stoffa, carta, cartone, spago e fil di ferro: la materia dei sogni. C’è poco da aggiungere: Il ‘racconto’ è poca ed irrisolta cosa. Gli attori (Gael Garcia Bernal e Charlotte Gainsbourg) sono quasi perfetti, e lei ha un impossibile, tenerissimo fascino cui non si può resistere.
Potrei finire qui. Ma c’è una cosaL’arte del sogno importante che vale la pena aggiungere. All’inizio, parlavo di purezza. Devo spiegarmi meglio. Questo film maneggia materiali pericolosi depurandoli di qualsiasi insidia. E’ eccentrico ed originale senza l’autocompiacimento dell’artista, o le obliquità cerebrali che trapelano quasi inevitabilmente in questi casi. E’ visionario (e quanto!) ma senza nessuna acidità psichedelica, senza nessun retrogusto tossico o allucinato. E’ un’apologia dell’infanzia e dello sguardo infantile senza nessuna tentazione regressiva, di allontanamento dalla realtà, dal qui ed ora. I sogni sono un prolungamento, un complemento del reale, che ad essi scorre parallelo e da essi attinge energia. Certo, si potrebbe dire, il protagonista non è un esempio di persona concreta (è quasi un disadattato, nelle relazioni). Ma a me sembra che svolga un ruolo simbolico, catartico: ci (ri)indica la strada, una strada che possiamo percorrere con la nostra automobilina di cartone ondulato. Forare una gomma è un’eventualità imponderabile, andare più o meno lenti, cantando o stando zitti, ascoltando la radio o chiacchierando col compagno di viaggio, sono scelte individuali.

Il conto:
Spesi: 5,00 euro
Valore effettivo: 7,00 euro
Bilancio: +2,00

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