13 ottobre 2007 by Marco
Giorni di Nobel, questi. Sono una quarantina d’anni che dico Nòbel, con l’accento sulla o. E da quasi altrettanti ho un automatico moto di sdegnato sopracciglio ogni volta che sento qualcuno dire Premio Nobèl. Mi ha sempre fatto l’effetto di certe antiche zie che volevano fare le sofisticate e pronunciavano i nomi di famosi attori hollywoodiani francesizzandoli (Anfrì Bogàrt, Robèr Misciùm, Caterìn Ebùrn e via dicendo). C’era una conoscente di Flaiano che parlava di Tolstoi chiamandolo Tolstuà.
Eppure la mia tracotanza linguistica ha oggi subito uno smacco. Dopo aver sentito l’ennesimo giornalista -del tg2, figurarsi…- che diceva “è stato assegnato il Nobèl per la pace ad Al Gore”, mi sono deciso a fare un ricerchetta su Google, non avendo un dizionario a portata di mano. Ahimè, pare che abbia passato una vita ad i
narcare inutilmente il sopracciglio. Pare che si dica proprio Premio Nobèl. Per consolarmi, e per fare penitenza (l’ho trascritto a mano, non avendo lo scanner) ho ripescato un pezzo del 1965 di Achille Campanile sull’argomento accenti e televisione. Trovo che sia, scusate l’iperbole, assolutamente meraviglioso. Ed assolutamente esilarante (ogni volta che lo rileggo, rido da solo). E’ lunghetto, e non ho avuto cuore di tagliarlo. Ma vedrete che vale la pena di leggerlo.
LE OPERE E I FIERI ACCENTI
Una delle prime gigantesche opere della TV è quella della bonifica integrale del linguaggio, di cui il benemerito sodalizio si accolla volontariamente l’immane pondo fin dal suo primo apparire.
Nel riquadro di tale meritorio compito, di cui darò piena contezza nelle mie pagine olezzanti di lucerna, come quelle di Demostene, rientra lo
SPOSTAMENTO DEGLI ACCENTI
operato su larga scala. Vecchi accenti che da anni e talora da secoli riposavano indisturbati sulle posizioni occupate, in un neghittoso sonno e in un’immobilità da cui si sarebbe detto che niuno mai sarebbesi azzardato a toglierli, vengono audacemente rimossi e spostati a viva forza su altre sillabe. Chi viene fatto avanzare, chi indietreggiare. Chi si ferma è perduto.
L’ESERCITO ATTACCANTE
Per tale opera la TV si serve precipuamente d’una truppa d’assalto, composta di guastatori scelti, detti leggitori, Read more »
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25 settembre 2007 by Marco
Per caso, mi è capitata tra le mani una raccolta di saggi di Italo Calvino, nella quale ho trovato il brano che segue, del 1967.
Quando parla di comico, di ironia e di satira, si riferisce al campo letterario, ma è evidentemente un discorso applicabile a tutto l’ambito della comunicazione, forse anche oltre. Ed attualissimo.
L’elemento letterario del “comico” ha per me grande importanza, ma non è la satira l’atteggiamento che riconosco come a me più congeniale.
La satira ha una componente di moralismo e una componente di canzonatura. Entrambe le componenti vorrei mi fossero estranee, anche perchè non le amo negli altri.
Chi fa il moralista si crede più furbo, o meglio crede le cose più semplici di come appaiono agli altri. In ogni caso, la satira esclude un atteggiamento d’interrogazione, di ricerca. Non esclude invece una forte parte d’ambivalenza, cioè la mescolanza d’attrazione e ripulsione che anima ogni vero satirico verso l’oggetto della sua satira. Ambivalenza che se contribuisce a dare alla satira uno spessore psicologico più ricco, non ne fa per questo uno strumento di conoscenza poetica più duttile: il satirico è impedito dalla ripulsione a comprendere meglio il mondo da cui è attratto, ed è costretto dall’attrazione a occuparsi del mondo che gli repelle.
Quel che cerco nella trasfigurazione comica o ironica o grottesca o fumistica è la via d’uscire dalla limitatezza e univocità d’ogni rappresentazione e ogni giudizio. Una cosa si può dirla almeno in due modi: un modo per cui chi dice vuol dire quella cosa e solo quella; e un modo per cui si vuol dire si quella cosa, ma nello stesso tempo ricordare che il mondo è molto più complicato e vasto e contraddittorio. L’ironia ariostesca, il comico shakespeariano, il picaresco cervantino, lo humour sterniano, la fumisteria di Lewis Carrol, di Edward Lear, di Jarry, di Queneau valgono per me in quanto attraverso ad essi si raggiunge questa specie di distacco dal particolare, di senso della vastità del tutto.
E non è da dire che sia un risultato a cui giungono soltanto i grandi. E’ piuttosto un metodo, un tipo di rapporto col mondo, che può informare di sé manifestazioni svariate e quotidiane di una civiltà. Si pensi a quanto il sense of humour abbia contato nella civiltà inglese, non solo, ma quanto abbia contato nell’arricchire l’ironia letteraria di dimensioni fondamentali, sconosciute al mondo classico: e non mi riferisco tanto al fondo di melanconia simpatica verso il mondo, quanto alla prima virtù di ogni vero “umorista”: coinvolgere nella propria ironia anche se stesso.
Da quese predilezioni derivano le mie riserve sulla satira, concentrata com’essa è con passione esclusivo-ambivalente sul polo negativo del proprio universo, attenta a tener fuori dalla contestazione l’io dell’autore. Però apprezzo e amo lo spirito satirico quando viene fuori senza una particolare intenzione, in margine a una rappresentazione pù vasta e più disinteressata. E certamente ammiro la satira e mi faccio piccolo piccolo al suo cospetto quando la carica dell’accanimento derisorio è portata alle estreme conseguenze e supera la soglia del particolare per mettere in questione l’intero genere umano, come in Swift e in Gogol’, confinando con una concezione tragica del mondo.
Italo Calvino, da “Una pietra sopra“, Mondadori (prec. ed. Einaudi)
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