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Magna Grecia

Anche quest’anno, il vostro titolare non resiste alla tentazione di fingersi reporter. Certo, scrivere al pc di un punto scommesse di Crotone, prima di andare al mare, non è paragonabile al redigere faticose cronache di guerra colle pallottole che ti fischiano nelle orecchie. Ma tutto è relativo, diceva qualcuno. Vi assicuro che reperire un Internet point qui è stata un impresa degna di medaglia al valore.
Comunque, nel descrivere l’arrivo in queste ridenti località della Calabria Ionica, la mente mi torna a quanto scrivevo l’anno scorso andando in Puglia. Le stesse identiche sensazione di orrore architettonico innestato a forza in un paesaggio per altri versi splendido. Sarà che non sono abituato, sarà che non mi rassegno, ma ho trovato davvero disturbante notare quanto la mente umana possa pervertirsi a concepire delle mostruosità che pensavo inconcepibili. Mi sorprendo a pensare a campi di detenzione / rieducazione ai quali condannare sedicenti architetti col cervello corroso dai miasmi dell’alluminio anodizzato e del “decoro” secondo la scuola di Cronaca Vera. Gente che probabilmente ama alla follia il carattere Comic Sans. Mi fermo qui, sennò divento troppo snob.

Arrivati comunque al Parco Archeologico di Capo Colonna, e cominciatici a rilassare, abbiamo fatto un di quegl’incontri che sembrerebbero troppo letterari per essere veri. Un loquace vecchietto che ci ha intrattenuto, con aneddoti sapienziali, citazioni omeriche, Diogene, Alessandro Magno, Milano nel ’62 (“quando ci sono arrivato io: tutti i tranvieri erano milanesi. Poi….“) e una stupefacente dissertazione su come sia necessario abbattere l’io individuale per lasciar fluire l’energia divina universale che è in ciascuno di noi.
Il tutto detto da un sedicente possessore di licenza elementare, con un saporito accento del meridione. Eravamo incantati, come succedeva da piccoli con certe voci che ti avvolgevano nella loro musica carezzevole e ti gettavano in una spece d’ipnosi magica.
Nell’accomiatarci, non ho potuto fare a meno di pensare a quel romanzo di Achille Campanile in cui, a Capri, i protagonisti incontrano il tipico vecchio pescatore da cartolina, barba bianca, cappellino, pipa di legno, che li intrattiene con meravigliosi aneddoti e canzoni. Dopo un po’, si rendono conto che si trattava di un dipendente della pro loco, che alla fine della sua giornata di lavoro si rimetteva gli abiti civili e tornava a casa.

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Diario Carpigiano (2)

L'umile titolare sul palco del Premio LoriaSeconda ed ultima parte delle cronache di questo weekend speso felicemente tra pagine e tortelli, scrittori e palazzi antichi, amici vecchi e nuovi.
Anche la giornata di domenica si presentava piena di appuntamenti appetitosi sotto ogni punto di vista, e si è conclusa (per me) con la premiazione ed una piacevolissima cena con alcuni tra i finalisti. Volete sapere subito com’è andata – la premiazione, intendo-? Ve lo dico: il vostro umile titolare non ha vinto. Ma non se ne rammarica se non in misura infinitesimale. Qualsiasi cosa si fosse aggiunta al semplice fatto di essere arrivato in finale al Premio Loria sarebbe stato tutto grasso che colava (espressione particolarmente calzante, data la forsennata dieta iperproteica cui mi sono sottoposto di buon grado in questi luoghi). Ho visitato una città incantevole, ho pranzato, chiacchierato, riso, discusso con persone incontrate qui per la prima volta o già conosciute, scrittori affermati e “colleghi” apprendisti. Mi sono divertito un mondo. La cosa bella è stata, oltre alla qualità degli eventi ed all’impeccabile efficientissima organizzazione, l’atmosfera che si respirava in ognuna delle “poltrone” dislocate per la città: un’atmosfera allegra, gioiosa, tutt’altro che paludata o pensosamente penitenziale (rischio che si può correre in certi contesti in cui le parole “arte”, “letteratura”, “cultura” invece che rappresentare momenti di potenziale felicità e crescita per ciascuno, sono inflitte come fardelli da trasportare con sofferenza compiaciuta). Qui si è parlato di libri, di scrittura, di storie reali ed inventate, ed anche di drammi o luoghi oscuri con la leggerezza priva di superficialità che è, a mio avviso, la tonalità cui si dovrebbe aspirare in quasi tutti i contesti, ed in particolare in quelli in cui si fa lavoro culturale.
Non mi dilungo ulteriormente sulle cose che ho visto, su quelle che non sono riuscito a vedere, e sulla lista infinita di libri che mi è venuta la voglia di leggere a Carpi, spesso dopo averne conosciuto gli autori. Finirò sul lastrico, se me li compro tutti. Comunque, a poco a poco, ve ne (ri)parlerò qui.

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Diario Carpigiano (1)

CarpiCome qualcuno tra gli affezionati sa, mi trovo da ieri a Carpi in missione tutt’altro che segreta, per seguire da diretto interessato la Festa del Racconto/Premio Loria.
Arrivo nella serata di ieri, dopo una tribolata giornata tra scioperi, ingorghi, treni presi in corsa (io) e treni persi e ripresi da Lucia, che superate crisi di sconforto e complicate trafile tra biglietterie e capistazione, riesce a raggiungermi sana e salva e in tempo utile.  Forse anche per il contrasto con le faticose traiettorie fisiche e morali della giornata, l’impressione iniziale è splendida.

Carpi sembra subito bellissima. Da vedere e da camminarci, forse da viverci. Il prototipo della perfetta cittadina centrosettentrionale dalla storia antica, ben organizzata, piena d’iniziative culturali, con tutti i vantaggi della piccola città “tranquilla” ma dalla vivacità metropolitana quanto ad antenne puntate verso il resto d’Italia e del mondo.
Mi domando talvolta se la fascinazione che colpisce noi terroni istruiti quando ci troviamo in posti come questo, più che mai noi che veniamo dalla innominabile città delle rivolte popolari contro la polizia che arresta lo scippatore, se questa fascinazione, dicevo, non sia frutto di un posticcio mito socioculturale. Che magari a viverci davvero, dopo una settimana, in febbraio, che so, tra nebbia, grappini e coprifuoco serale, fuggiremmo via ululando e rovesciando malignamente i lindi cassonetti differenziati come zombie nella notte. Chi può dirlo. E’ solo un dubbio. Ma nel frattempo questi tre giorni d’inizio autunno, nonostante il tempo piovoso, me li sto gustando davvero, in tutti sensi. A cominciare dalla “cena letteraria” di ieri, tutta a base di zucca, dove ho avuto il primo contatto con l’ambiente, e ritrovato subito facce conosciute (noi scrittori napoletani Cilenteschi, di tutte le dimensioni letterarie, siamo una specie che si propaga per ogni dove, per fortuna nostra….).
CarpiLa giornata di oggi è cominciata con l’unico evento che coinvolgeva direttamente i finalisti del premio, sezione inediti (oltre naturalmente alla premiazione di domani): l’incontro con gli studenti delle superiori, che si sono sciroppati i nostri racconti e si sono presi pure la briga di commentarli, alla stregua di un compito. E’ stata un’esperienza carina, eccezion fatta per il freddo polare che ha colto me -vestito in giacchetta e camicia- e quanti come me pensavano che il clima si mantenesse temperato. Perdipiù avevo una impellentissima necessità di ricambio idrico che ho tenuto a bada stoicamente per un’ora. Tra gli ameni alberi di un giardino del castello, ho passato per amor dell’arte alcuni tra i momenti di più acuta sofferenza davanti ad un pubblico dopo quelli della recita scolastica all’asilo. Ma poi è passata.

Per il resto, ho conosciuto i “concorrenti”, abbiamo familiarizzato, e sono curiosissimo di leggere i loro racconti. Tutta la giornata è stata un fuoco di fila di incontri con scrittori, letture e degustazioni una dopo l’altra. Ho rivisto Antonio Pascale e sempre di più mi sono confermato nella convinzione che, sotto la superfice della sua irresistibile teatralità da grande intrattenitore e la sua continua diminutio (apparente contraddizione) di sè stesso e di tutte le retoriche culturali, ci sia un vero, grande intellettuale dei nostri tempi, una specie in via di estinzione. Uno che pensa davvero e fa pensare, che ti mostra con lucidità visioni delle cose eterodosse, percorsi raramente battuti. E un bravissimo scrittore (splendida la sua lettura dal libro “turistico” sul Molise: la maturità come conquista del torpore sonnolento in amore e nel viaggio). Con lui Antonella del Giudice, collega cilentesca ed amica, e brava. Entrambi ex vincintori del premio, come Roberto Alajmo e Nicolò La Rocca, anche loro a parlare e leggere in pubblico. Poi Carabba e Conti a parlare dei racconti umoristici di Fellini, letture di Vonnegut, Bevilacqua

C’è fin troppa carne a cuocere, è difficile reggere il ritmo. E la cosa più terribile è che, per quasi tutti gli autori che non ho letto, e che qui ho visto, ascoltato, conosciuto, sorge l’immediata voglia di colmare la lacuna, con grave rischio economico e dispendio di risorse destinate a più necessarie attività lavorative. Mi fermo qui, per ora. Tra poco Iaia Forte legge Arturo Loria, intestatario del premio, e s’e fatta quasi ora. A domani.

 

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Sul Decoro

Lecce Secondo (e molto probabilmente ultimo) post vacanziero. Questa volta da un Internet Point di Lecce.
Prima considerazione: questa città merita una visita, meno frettolosa di quella che stiamo faticosamente facendo noi sotto un sole a picco. E’ davvero un gioiello, tanto per usare un aggettivo originale. Ogni angolo, ogni balcone, ogni pezzo di muro è una meraviglia barocca. Valeva la pena di rinunciare per una volta al mare. Consigliata a chiunque non l’abbia ancora vista.
Seconda considerazione: colpisce per paragone, qui a Lecce ma anche in tutti gli altri luoghi che abbiamo visitato, la capacità di gestire efficacemente il turismo. Organizzazione, offerta di informazioni, spazi per l’imprenditoria e l’offerta culturale. Tutto per contrasto ci riporta alla miseria della nostra città di provenienza, la cui peculiarità in questo periodo (?) sembra essere lo scippo al turista internazionale, meglio se con ricovero all’ospedale e/o omertosa solidarietà “popolare” al microcriminale.
Forse sono diventato vecchio e moralista. Può capitare, dopo i quaranta. Perdonatemi

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Architetture estive

Scrivo avventurosamente questo primo post vacanziero dalla reception del campeggio di Gallipoli dove mi trovo a pascolare da qualche giorno. Il tempo a disposizione è poco, e quindi non mi dilungherò. Posso solo dire che se c’è un elemento davvero prevalente (quasi ossessivo) che mi ha colpito in questo viaggio in Salento, è il tremendo contrasto (classico, banale) tra il bello e il brutto. Il bello: il paesaggio, magnifico, e le altrettanto magnifiche città e paesi, nei loro centri storici pieni di meraviglie barocche. Il brutto: l’orrenda farcitura di tutto ciò con un’edilizia “moderna”, che fa gridare all’orrore, senza alcun criterio se non il capriccio mostruoso di alcuni geometri e/o assessori per i quali il contesto, lo stile, l’omogeneità sono concetti senza senso. Un tripudio di alluminio anodizzato, di “audaci” costruzioni postmodernizzanti, bauhaseggianti, razionalistizzanti, in una gara a chi cita e stravolge peggio, senza vergogna alcuna della propria povertà inventiva e del proprio cattivo gusto. Uno a fianco all’altro, senza preoccuparsi minimamente di dare omogeneità, neppure alla bruttezza. E, a pochi metri, come sotto assedio, capolavori d’arte e di umanità costruiti nei secoli. E un mare che sembra volerti offrire tra le altre consolazioni, quella dell’oblio.

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Alfabeti

CapitelloQuand’ero piccolo, avevo paura delle lettere greche.
Le vidi per la prima volta in televisione, nella pubblicità dei biscotti al Plasmon. Alla fine di ogni carosello c’era un signore nudo, di spalle, che dava una martellata al rallentatore a non si sa bene cosa, sotto un frontone tra due colonne. Sul frontone, c’era scritto ???????. Una melodia -una nota ripetuta da un cantante, da un coro, non saprei, quella musica era misteriosa quanto il resto – intonava, appunto, plàs-mon. E una sottile angoscia s’impadroniva di me. Quelle lettere aliene mi turbavano. E cominciarono a turbarmi, da allora, ogni volta che mi capitava di vederle qua e là, sul muso di qualche nave al porto, su qualche giornale, su un camion in autostrada. Read more »

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