Tag: violenza

S/M Food

Non avevo con me la macchina fotografica, credetemi sulla parola. Passando ieri davanti ad un negozio di alimentari ho visto, appiccicato su una vetrina che ospitava vari tipi di pane, un cartello scritto a pennarello, che annunciava:

Fruste calde tutti i giorni

(Dalle mie parti, frusta è sinonimo di baguette. Talora un po’ di esterofilia salva da spiacevoli equivoci)

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Mondo Cane

Ieri, ho sentito una di quelle notizie -capitano- di fronte alle quali la reazione è “ma davvero solo ORA hanno deciso così”?

La notizia è la seguente: L’Unione Europea ha deciso di proibire l’importazione (che finora, a quanto pare, era fiorente) di pellicce di cane e gatto prodotte in una serie di paesi dell’estremo oriente, principalmente in Cina.
La notizia (al tg2) era corredata di immagini, parzialmente “purgate” di allevamenti dei suddetti animali.  

Ci sono certi argomenti su cui ognuno gioca la propria personale inclinazione alla empatia del dolore. Il mondo è pieno di tragedie, di uomini donne e bambini morti, uccisi, resi schiavi, utilizzati per il traffico di organi, violentati e via dicendo. Io personalmente -non perché sia insensibile alle suddette tragedie, tutt’altro- provo una stretta particolare allo stomaco quando vedo e sento cose, magari meno “gravi” che riguardano gli animali, ed i cani  in particolare. Debolezza da zitella anglosassone, forse. Nessuno è perfetto. Ma forse anche perchè mi pare di leggere in questi comportamenti umani una metafora, un indizio svelato, un archetipo di ciò che di peggio è possibile fare quando non ci sono barriere morali ad arginare un tipo di comportamento che è la quintessenza del male: l’indifferenza alla sofferenza o più spesso il godimento sadico nei confronti di esseri senzienti coi quali c’è relazione affettiva, inermi ed innocenti, giustificato dall’interesse materiale. Che siano cani e gatti è solo un dettaglio. Non per loro, ovviamente.

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Zodiac

ZodiacDeludente. Questo post potrebbe fermarsi qui, se volessi essere molto ma molto sintetico.
Ma l’etica del blogger (?) impone di spendere qualche parola in più su questo film che pure prometteva bene, dal regista David Fincher (Fight club, Seven) agli attori, alla storia, ispirata al realmente esistito Killer dello Zodiaco, che a cavallo tra i ’60 ed i ’70 terrorizzò coi suoi enigmatici e gratuiti omicidi la San Francisco in transizione dalla Summer of Love all’ispettore Callaghan.
Il problema iniziale è che chiunque abbia letto anche mezza riga sul film o sull’argomento che tratta, viene subito a conoscenza del fatto che l’autore di quei delitti non è mai stato identificato. Questo già, in termini di puro godimento del plot, pone una più o meno piccola riserva. Lo spettatore volenteroso si accomoda e guarda con sospensione di giudizio, augurandosi di godersi uno spettacolo che gli proporrà, si spera, almeno una costruzione serrata dei fatti, un’ipotesi credibile sul colpevole, o (come nel caso della Dalia Nera), una licenza narrativa/criminologica, che azzarda una soluzione non verificatasi in realtà. In più, auspicabilmente, avrà uno spaccato di un luogo e di un epoca molto interessanti narrativamente, la california del Flower Power su cui si staglia l’ombra nera di Charles Manson e dei suoi delitti, gli hippies e le zone più oscure della mente, le rivolte studentesche, il vietnam, il giornalismo d’inchiesta (il watergate è alle porte) e chi più ne ha più ne metta.
Speranze abbastanza vane. La prima parte mette in scena, senza particolari guizzi, i primi delitti e il partire dell’inchiesta, che vede in parallelo ed in competizione i redattori di un quotidiano ed i poliziotti. Ma le indagini si arenano, e da un certo momento in poi, questo lunghissimo, sbrodolato film è la noiosa ed incomprensibile cronaca di un’ossessione: quella del vignettista del quotidiano, che per quasi vent’anni, dopo che sia il giornalista che il poliziotto hanno gettato la spugna, cerca il killer, avvitandosi su ipotesi, nomi, eventi, faldoni d’archivio reperiti fortunosamente e ai limiti dell’illegale, senza suscitare la minima emozione allo spettatore, anzi, favorendone il torpore sonnolento. Alla fine di queste due ore e mezza, riaprendo l’occhio accarezzato da Morfeo, ci si accorge che un minimo di ipotesi risolutiva su chi potesse essere il killer ci viene proposta. Dopo un momento di smarrimento necessario a ricordarsi qual’era il film che si stava vedendo, e come cominciava, se ne prende atto, felici che le maschere stiano aprendo le porte d’uscita e pregustando il contatto col materasso. 

Il conto:
Spesi: 7,50 euro
Valore effettivo: 3,50 euro
Bilancio: -4,00

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Mio fratello è figlio unico

Mio fratello è figlio unicoComincerò questo post con una citazione ammiccante di quelle che ti fanno fare una gran bella figura da intellettuale di mondo. Alberto Savinio, parlando (ahimé) di Erik Satie, citava a sua volta il rivoluzionario russo Kropotkin, che nelle sue memorie da carcerato, si descriveva intento a percorrere “..ogni giorno, per mesi ed anni, a fine di neutralizzare gli effetti dell’inerzia corporale… tanti passi avanti e indietro nella sua cella…. quanti ci vogliono a colmare una distanza di otto chilometri. Come abbia fatto a non uscire matto, io non so capire: penso tuttavia che non sfuggirebbe alla pazzia colui che ogni giorno continuasse a sognare le musiche “normali” di Erik Satie, nelle quali i suoni, ogni tre passi, sbattono sulle pareti di una ineffabile cella.”

Fatte le dovute distinzioni, e premesso che a me Satie invece piace moltissimo, trovo che l’immagine si attagli bene a certo cinema italiano di oggi. Non a tutto, non a tutti, ma certamente a quello medio, per quel che vuol dire.

Prendiamo per esempio quest’ultimo lavoro di Daniele Luchetti. Dovessi dire che non mi è piaciuto per niente o poco, che lo trovo brutto, direi senz’altro una bugia. Però….

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God bless anyone but you stupid bastard

Sempre a proposito di morti ammazzati e sul suo modo di trattarli (o meglio, di utilizzarli, in realtà, per trastullarsi con altro) nella comunicazione.
Sul suo Blog, Matteo Bordone ha scritto uno splendido post, che sottoscrivo integralmente. Parte da un editoriale di Christian Rocca sul Foglio, che, nell’affrontare la strage in Virginia, intitola il suo pezzo “L’America è un po’ pazza” e conclude dicendo.

L’America è Blacksburg o Columbine, ma è anche la società più vitale del pianeta e l’unica capace di prendersi sulle spalle il peso del suo e del nostro futuro.

Io, nel post di Bordone, ho lasciato un commento, che vi riporto qui. Perchè per me l’argomento è uno di quelli che da un po’ di tempo ritornano quasi ossessivamente.

Penso che nel caso di Rocca (e di Ferrara) ci troviamo di fronte ad un desolante fenomeno psicologico, tipico di molte persone dall’intelligenza acuta ed inquieta (ma anche, di riporto, di parecchi stupidi). Si comincia con lo stigmatizzare -giustamente – le banalità conformistiche, gli automatismi mentali ideologici, le frasi fatte, lo scarso uso del ragionamento, la faziosità, si prosegue con l’atteggiamento “controcorrente” di default, si approda alla acritica faziosità speculare, avendo fatto il giro completo. Alla fine ci si sente comunque molto intelligenti e molto etici, senza un particolare sforzo cognitivo. Esattamente come quelli da cui ci si voleva differenziare.

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Panic

izzehG ocirnE

Ho bisogno di fare una premessa.
Non mi piace incazzarmi, fare il moralista, fare il fustigatore di costumi, l’indignato. E questo è uno di quei rari casi in cui combatto con un’onda emotiva forte, personale. Sono tentato da tutte quelle cose che in genere tento di evitare. Ho voglia di incazzarmi davvero, e di prendermela personalmente con qualcuno. Cercherò di non farlo. Ma non ho intenzione di nascondere il mio stato d’animo.
In questi giorni, si festeggiano i 18 anni di Blob. Tutti a celebrare, dagli addetti ai lavori fino a Prodi e Berlusconi che inviano messaggi ammantati di compiacente circostanza. Fin qui tutto normale. Anch’io, in generale, sono stato e sono uno spettatore di questa rivoluzionaria trasmissione, che mi ha regalato di tempo in tempo momenti di divertimento, di inquietudine e di irritazione.
Ma succede questo: è stata realizzata un trasmissione speciale per l’anniversario, presentata in gran pompa ieri. Il titolo è Don’t panic. La frase riprende quella pronunciata dall’assistente del tesoriere della Pennsylvania, Budd Dwyer, quando quest’ultimo si suicidò sparandosi in bocca in diretta televisiva. Quel filmato fu passato su Blob in prima serata, integralmente, e fu uno dei momenti “topici”, per così dire della sua storia.

Qui devo fermarmi e aprire una parentesi del tutto personale. Read more »

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